VISITA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
IN EMILIA ROMAGNA
CONSEGNA DEL "SIGILLO" DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI
AL CAPO DELLO STATO
Bologna - Università, 8 febbraio 2000
Signor Rettore,
Signori Componenti del Senato Accademico,
Signore e Signori,
Vi sono grato di questo vostro gesto di amicizia, dell'omaggio del Sigillo
che è simbolo di questa insigne Università degli Studi, delle parole cortesi
con cui Ella, Signor Rettore, ha voluto accogliermi in quest'Aula Magna.
Apprezzo al tempo stesso la concretezza delle notizie che Ella ha voluto darmi
sulle realizzazioni e sui progetti che consentono a questa università, la più
antica fra tutte e modello di innumerevoli altre sorte in Europa e in tutti i
continenti, di assolvere con spirito d'innovazione i suoi compiti, in una
società in continuo mutamento, i cui orizzonti si allargano oramai a tutto il
mondo.
L'Università, lo dice il termine, vive di spazi ampi. L'idea stessa a cui si
ispira l'istituzione-Università ha per me qualcosa di sacro. La mia formazione
- e ne avverto ogni giorno i benefici - si è nutrita di studi, lontani ma
indimenticati, in un'altra grande Università italiana, quella di Pisa, e alla
Scuola Normale Superiore.
A quell'esperienza accosto, nella mia mente, quella degli anni trascorsi
all'Ufficio Studi della Banca d'Italia: un'istituzione che ha sempre cercato e
avuto contatti e occasioni di confronto con il mondo accademico, e che ha sempre
perseguito un rigore di analisi non scalfito da esigenze esterne, nel pieno
rispetto dell'autonomia di pensiero di tutti i ricercatori.
Rivolgendo la mente ai tempi che videro ascendere lo Studio bolognese a fama
europea, non si può dimenticare il fatto che a Bologna come nelle altre grandi
università sorelle, dalla Sorbona ad Oxford, si parlava allora la stessa
lingua: quella latina, una vera e propria Koinh dialhktoz.
Tutte quelle università erano espressione di una cultura comune e di una unica
civiltà europea, civiltà già da allora aperta a fruttuosi innesti con altre
culture. Avevano le stesse radici classiche e cristiane, prefiguravano quella
che noi consideriamo come la più grande conquista del secolo così travagliato
che si è appena concluso: l'unificazione europea. Abbiamo riconquistato valori
che avevamo rischiato di perdere.
La generazione alla quale appartengo non dimentica gli orrori che ha vissuto. La
nostra vita è stata dedicata allo sforzo di rendere per sempre impossibile il
rinnovarsi delle stragi cui siamo scampati, costruendo l'edificio dell'unità
fra le libere nazioni europee.
Desidero approfittare di questo mio felice incontro con l'Università di Bologna
per condividere con voi alcune riflessioni su quest'opera grandiosa e ancora
incompiuta che abbiamo intrapreso. A ciò mi spinge la consapevolezza di trovare
in voi comunanza di sentimenti e di ideali.
Che cos'è questa Europa? Alla metà degli anni '30, in uno studio dedicato alla
"Crisi della coscienza europea", Paul Hazard ricordava, con felice
ambiguità di significati, che "l'Europa è un pensiero che non si
accontenta mai. Senza risparmio di se stessa, persegue costantemente due mete:
l'una protesa verso la felicità; l'altra verso la verità".
Costruire un'Europa libera e unita, che ricerchi progresso e giustizia, che
pratichi i principi costitutivi della democrazia e dell'uguaglianza dei diritti,
è un compito che sembra non avere mai fine. Gli uomini della mia generazione
hanno cercato di fare la loro parte, riscattando ideali traditi.
Toccherà ad altri continuare l'opera. Tocca e toccherà all'Italia, paese
fondatore dell'unità europea, un compito non secondario in questa impresa.
Vi sono stati momenti, anche in anni recenti, in cui vi era il dubbio che
l'Italia non fosse abbastanza forte per partecipare a impegni importanti, come
la costruzione della moneta europea. Abbiamo affrontato prove difficili, e le
abbiamo superate, fin dal lontano 1978, quando si dovette decidere se aderire o
meno al Sistema Monetario Europeo. Da allora sono trascorsi non pochi anni. Dopo
successi e crisi nel lungo cammino verso l'unità monetaria, è venuta la scelta
del Trattato di Maastricht, e poi la decisione di partecipare fin dall'inizio
all'Euro. Decisione quest'ultima più ardua, perché non consisteva solo in un
atto di volontà politica, ma richiedeva una sequenza di azioni e di
comportamenti coinvolgenti l'intera società italiana, al fine di realizzare il
necessario risanamento economico e finanziario.
Mi si chiede talvolta perché decidemmo di partecipare subito. Rispondo, come
europeo, che senza l'Italia sarebbe nato un "Euro" a larga prevalenza
mitteleuropea. Ciò avrebbe squilibrato la nuova costruzione: la componente
mediterranea, la vera culla della civiltà europea, sarebbe stata emarginata e
con essa le problematiche dei rapporti fra Nord e Sud.
Si sarebbe compiuto anzitutto un errore di politica europea, con gravi
conseguenze non solo economiche, ma politiche e culturali.
Quanto all'Italia, senza quell'accelerazione, che legava l'esigenza troppo a
lungo trascurata di portare a termine il risanamento economico al raggiungimento
di un obbiettivo politico di alto livello sentito dal popolo italiano, gli
sforzi per riequilibrare la finanza pubblica avrebbero dovuto essere maggiori,
più gravosi i costi.
Un impegno forte e deciso rese in breve tempo credibile lo Stato italiano,
facendogli riacquistare la fiducia dei mercati; ridusse l'onere finanziario ed
economico delle imprese.
Restare fuori avrebbe accentuato il dualismo territoriale del nostro Paese,
mettendo in pericolo la stessa unità nazionale. E se non avessimo avuto il
coraggio di fare quanto necessario per entrare, noi saremmo rimasti fuori non
solo dalla moneta, ma anche dalla politica europea.
Perché - non abbiate dubbi - il governo comune della moneta porterà a un
governo comune dell'economia. Lo affermo da anni: non è pensabile avere una
Banca Centrale europea e non anche un governo comune dell'economia. Se non vi è
il contraltare alla Banca Centrale nel governo dell'economia, si ha una zoppìa:
oggi di fatto l'abbiamo; sappiamo di doverla eliminare.
Ma attenzione: anche se l'edificio è incompiuto, la moneta unica è già una
realtà statuale sovranazionale. E' un fatto di grande rilievo. Undici Paesi
hanno compiuto, col consenso dei cittadini, una cessione di sovranità, in un
settore importante e significativo quale è quello del governo della moneta.
Sta a noi far sì, con le procedure appropriate, con il consenso delle pubbliche
opinioni, che l'assorbimento di tradizionali strumenti di sovranità nazionale
in sovranità più ampie avanzi ulteriormente, si estenda ad altri aspetti della
nostra realtà istituzionale.
Ma a ogni passo avanti, si annunciano altre prove da superare, altri problemi da
risolvere. Guardando indietro, vediamo di avere fatto grandi cose. Guardando
avanti, ne vediamo altre, non meno grandi ancora da fare.
Oggi l'Unione si pone due ardui compiti: la riforma delle proprie strutture e
l'allargamento. Sono ambedue necessari? Certamente. Sono alternativi? No, non lo
sono.
Si delinea il grande progetto di un'Europa fatta di cerchi concentrici, che
hanno in comune forti legami di tradizione e di identità e che vanno racchiusi
in un perimetro giuridico comune.
Tutto questo mondo si alimenta di comuni aspirazioni, con un comune interesse al
consolidamento della pace e della convivenza fra i popoli nel pluralismo delle
identità e nella consapevolezza, come ci insegnava Federico Chabod, che
"l'idea di nazione è legata indissolubilmente a quella d'Europa".
Tutto, dall'eredità del passato ai risultati acquisiti in questi cinquant'anni,
ci spinge a porre il raggiungimento di una soggettività costituzionale europea
al centro della nostra visione del futuro. Ciò rientra nella tradizione
politica italiana: Alcide De Gasperi parlava già nel 1951, riferendosi al
progetto di esercito europeo, del perseguimento di uno "scopo di civiltà
supernazionale".
Di questo processo d'integrazione l'Italia è parte attiva e determinante. Esso
passa in primo luogo attraverso l'iniziativa degli Stati che, più di altri, si
sentono custodi dei principi ispiratori dell'Europa.
Riflettendo sul doppio compito dell'"approfondimento" e
dell'"allargamento", ci si chiede: ha uno di questi compiti la
priorità, temporale o logica, sull'altro?
Sono convinto che se si avvia l'allargamento senza aver realizzato il
rafforzamento si rischia poi di non fare più l'Europa unita che vogliamo.
Tocca dunque ai Paesi che sono già parte dell'Unione Europea e che accettano
l'idea della sovranazionalità, procedere alla modifica delle regole, per
rendere più forti le istituzioni europee, per rendere pienamente operativo il
governo dell'entità sovranazionale.
Non si tratta di legarsi a schemi rigidi di Bundes-Staat o di Staaten-Bund, di
Stato federale o di confederazione di Stati. Inedite combinazioni dell'uno e
dell'altro modello istituzionale sono immaginabili, nel dar forma alla
costituzionalizzazione dell'Unione Europea, nell'impegno a renderla più
efficiente e più rappresentativa, affinando relazioni ed equilibri fra
Commissione, Consiglio e Parlamento europeo, in una sintesi dei principali
aspetti intergovernativi e comunitari.
Lungo questo percorso, al fine di soddisfare fondamentali elementi di
democrazia, i cittadini europei vanno messi nella condizione di capire che cosa
li attende e di esprimere le loro scelte, la loro volontà. Affinché le
istituzioni possano affermarsi nei popoli, esse devono corrispondere ad attese
di fondo della coscienza collettiva.
Si sta lavorando anche a questo. La Carta dei Diritti Fondamentali, che
l'apposita Convenzione sta elaborando a Bruxelles, mira a richiamare i diritti
fondamentali dei cittadini europei, definendone la natura (individualità,
inviolabilità, giurisdizionalità) e a infondere un contenuto concreto alla
cittadinanza europea, in modo da incardinare i principi basilari della
democrazia nel tessuto costitutivo dell'Unione Europea.
Nella presente realtà dell'Unione Europea, la priorità l'ha il rafforzamento
delle strutture. E' indispensabile rafforzare prima di allargare, per non
compromettere, anzi per migliorare l'efficacia del sistema comunitario. A sei si
poteva trovare l'unanimità; a quindici con grande fatica; a venticinque è
praticamente impossibile.
Ma ciò che va concluso prima - il rafforzamento - deve rientrare in un
calendario che non differisca sine die l'allargamento. Gli impegni formali, e
ancor più quelli morali, assunti con tanti Paesi europei, non consentono di dir
loro: ci rivedremo fra qualche anno.
Deve esserci un processo politico articolato, scandito razionalmente nel tempo,
che leghi l'uno all'altro sviluppo: l'allargamento e il rafforzamento.
Si possono e si debbono portare avanti le trattative in ambedue i campi insieme.
La dilatazione dei confini dell'Unione Europea è una sfida ed un'occasione da
non perdere. Ma è doveroso rendere i nuovi Stati candidati consapevoli della
nostra volontà che in futuro l'Unione Europea sia molto più di quanto è ora.
Devono essere consapevoli che l'Unione Europea di oggi sta cambiando, perché
tende alla sovranazionalità, pur nel rispetto delle nazioni, che non verrà mai
meno. Devono sapere che l'Unione, alla quale chiedono di aderire, si propone
sviluppi ulteriori che la porteranno alla sovranazionalità in campi oltre la
moneta: dalla politica estera e dalla difesa, allo spazio di libertà, di
sicurezza e di giustizia. Questo complesso di materie è già oggetto di una
calendarizzazione che ci impegnerà fra il 2000 e il 2004.
Non si potrà dare via libera all'allargamento finché non si sia deciso e
avviato il rafforzamento. Sono d'accordo con il Presidente Chirac quando afferma
"che l'Europa prima di aprire le porte deve riformare le sue
istituzioni". Concordo anche con quanto ebbe a scrivere nel novembre scorso
il Presidente Rau, quando riaffermò l'obiettivo di "una costituzione breve
e comprensibile, che spieghi ai popoli le finalità e la struttura della
Federazione": di una Federazione europea di nazioni democratiche.
Oggi la capacità decisionale dell'Unione risente negativamente di scelte
passate, del non aver fatto precedere i successivi allargamenti da riforme
istituzionali efficaci. L'estensione del voto a maggioranza, la sua connessione
con tutte le procedure di codecisione fra il Parlamento e il Consiglio sono
avanzamenti non più rinviabili.
Se si guarda al campo più avanzato dell'Unione, il cosiddetto primo pilastro -
ossia la parte economica - e si riflette su come funziona il sistema
istituzionale, si vede che stiamo avvicinandoci a un governo dell'economia in un
sistema statuale unitario.
E' necessario prevedere, in una Unione allargata, per impedire dispersioni, il
diritto a una integrazione più stretta, a una cooperazione rafforzata, fra i
Paesi che sono in grado di farlo e vogliono farlo: come già è accaduto per la
moneta europea.
Ancora una riflessione sull'allargamento. L'obiettivo dominante di questo
processo è in ultima istanza la pace europea. Quando parlo di pace europea,
intendo non soltanto la capacità di difesa nei confronti di terzi, ma in primo
luogo la capacità di realizzare la convivenza pacifica fra i popoli europei.
La crisi dei Balcani è stata un'amara lezione per tutti. I Balcani sono un
banco di prova della capacità europea di collaborare e parlare con una voce
sola. Durante la crisi nel Kossovo l'Europa ha mostrato la propria maturità
politica. Altrettanto, se non di più, deve fare nella costruzione della pace e
di solidi assetti. Anche i più coraggiosi interventi rischiano di fallire se
non si afferma fra i popoli lo spirito di rispetto della persona umana, se
rimangono vivi odii etnici e religiosi.
Avendo questo in mente, e riflettendo sul fatto che non tutti i Paesi che
vogliono entrare nell'Unione sono oggi pronti ad accettare quei livelli di
sovranazionalità che abbiamo già realizzato, o che ci prepariamo a realizzare,
ho avuto occasione di dire che, accanto ai Paesi che potranno presto attuare
l'ormeggio all'Unione, altri ve ne sono cui occorre offrire intanto un sicuro
ancoraggio. Usai per la prima volta questi termini in Finlandia, parlando con il
Presidente Ahtisaari, avendo di fronte il porto di Helsinki, e nella memoria
quello della mia natia Livorno.
Signor Rettore,
Signori Componenti del Senato accademico,
Signore e Signori,
gli sviluppi che ho richiamato sono oggi tutti avviati su un binario negoziale
ben tracciato. Quest'anno di conferenza intergovernativa, questo 2000 che è un
altro anno cruciale per l'Europa, deve produrre i cambiamenti necessari. Non
possiamo accontentarci di cambiamenti minimali che lascino l'opera incompiuta o
che ne pregiudichino il compimento.
La ricerca di un accordo a livello minimo può certo facilitare il consenso,
potrebbe rappresentare l'apparente successo di non facili negoziati;
risulterebbe però miope, addirittura sterile, se si ha presente che la
variabile "tempo" non è infinita, tanto meno nella presente realtà
mondiale.
Abbiamo un grande disegno: fare dell'Europa un modello per il mondo, un pilastro
di pace, in una realtà globale piena di incognite. Per questo dobbiamo
prepararci, disegnare, perseguire progetti ambiziosi. Non erano meno difficili
quelli che sono stati già realizzati.
Nella costruzione di quest'opera c'è lavoro per tutti. Per gli uomini di
governo, anzitutto. Ma anche per gli uomini di studio. Ad essi spetta, in
particolare, di chiarire i termini di passaggi istituzionali che sono
fondamentali; di inventare - uso la parola nel suo significato etimologico -
soluzioni che non possono non essere in parte nuove, perché nuovi, non
sperimentati sono in molti aspetti i problemi ai quali dobbiamo dare soluzione.
Questo compito va intrapreso in un'ottica non solo europea ma mondiale. E' in
corso un processo di globalizzazione inarrestabile.
All'interno di questo quadro noi vogliamo che si realizzi concretamente
l'avanzamento dell'intera Europa verso un benessere vero, non soltanto economico
ma civile, rispondente alla visione sociale che è caratteristica della cultura
europea.
Sia le opportunità sia i possibili effetti negativi della globalizzazione
devono fungere da "federatore esterno" per l'Europa, spingendola a
integrarsi anche per evitare la decadenza, o per non veder dissolvere la propria
identità.
Ma non è solo un istinto difensivo o passivo ad animarci. Questa nostra Europa
incompiuta ha molto da insegnare al mondo. Ha la capacità di creare poteri
sovranazionali, che divengano strumenti di cooperazione e di pace. La nostra
esperienza può indicare la via al rafforzamento anche delle istituzioni
internazionali.
Questo può essere il compito che l'Europa, consapevole dei suoi fatali errori
del passato, ma forte anche dei suoi valori e dei suoi antichi e nuovi ideali,
figli di una cultura maturata nei secoli in luoghi di studio come questo, può
prefiggersi di assolvere nel nuovo secolo: giungendo a parlare con una sola voce
nel grande concerto delle nazioni, a cominciare dalle Nazioni Unite.
Signore e Signori,
l'avvio del secolo da poco concluso vide l'Europa uscire di senno e imboccare la
strada che condusse a due guerre mondiali. All'inizio del nuovo secolo l'opera
di pace, successivamente intrapresa, ha fruttificato: il passaggio dall'Europa
vagheggiata nei sogni dei nostri padri all'Europa delle realtà è ormai
compiuto attraverso l'Europa dei Trattati di Roma, di Maastricht e di Amsterdam.
L'Europa, finalmente unita, ha ritrovato il cammino della saggezza e della pace, sta generando in sé le forze per essere artefice nel mondo, è tornata alla piena coscienza della propria civiltà. Sta a noi proseguire lungo il cammino intrapreso senza esitazioni, con determinazione, con fiducia, sicuri dei nostri ideali, consapevoli delle nostre forze.