INTERVENTO DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
IN OCCASIONE DELLA
CERIMONIA CELEBRATIVA
PER I 140 ANNI DELL'UNITA' D'ITALIA
Torino - Palazzo Carignano, 20 novembre 2001
Eminenza,
Signori Rappresentanti degli Organi Costituzionali,
Onorevole Ministro,
Signori Presidenti delle Regioni e dei Consigli Regionali,
Signori Presidenti delle Province,
Cari Sindaci,
Autorità,
Signore e Signori,
Cari Studenti,
oggi ricordiamo un momento della nostra storia nel quale una generazione
soprattutto di giovani seppe trasformare un popolo, il nostro popolo, in una
Nazione. Questo è stato il Risorgimento. Questo oggi l'Italia ricorda, rivive
nel suo operare quotidiano, nelle istituzioni, nelle coscienze dei cittadini.
Abbiamo ascoltato dalle giovani voci di Claudia e Marta le parole che
risuonarono in questa aula, nel Parlamento di allora. Era la voce degli eletti
alla prima legislatura dell'Italia unita. Erano consapevoli, quei parlamentari,
di essere protagonisti di un'opera politica che nessuno aveva previsto e che
solo il coraggio, l'ardimento di patrioti e governanti aveva saputo costruire.
In ventitré mesi, dall'estate del 1859 alla primavera del 1861, era stato
compiuto una sorta di miracolo. Centoquaranta anni fa.
Quale Italia immaginarono i giovani di allora?
L'unità alla quale miravano moderati e repubblicani si raffigurava prima di
tutto nell'unità territoriale; ma era sentita ancor più come esigenza di dar
vita a una comunità di valori, come conquista di quei diritti civili che erano
germogliati nelle antiche repubbliche italiane descritte dal Sismondi.
Il contributo dato al Risorgimento da tanti letterati, filosofi, poeti e
scrittori fu essenziale. L'Italia nacque nelle coscienze prima ancora che sui
campi di battaglia e nelle istituzioni della politica. Ed é nelle coscienze che
dobbiamo rafforzarla e farla crescere.
I patrioti di allora, pur nell'entusiasmo del momento, avvertivano un senso di
incompiutezza nello straordinario successo raggiunto. Lo segnala l'enfasi stessa
di alcune loro affermazioni.
Abbiamo ascoltato il relatore Giorgini: "Il diritto di Vittorio Emanuele
II al Regno d'Italia emana dal potere costituente della Nazione. Egli vi regna
in virtù dei plebisciti ai quali si deve la formazione del Regno d'Italia".
E ancor più netto il Brofferio parla di uno Stato che deriva la propria
legittimità "dalla volontà del popolo". Per la prima volta,
milioni di italiani erano stati chiamati a votare - a suffragio universale,
quella prima volta! - per l'adesione al regno costituzionale di Vittorio
Emanuele.
I plebisciti furono un'esperienza indelebile per quella generazione e, non a
caso, i risultati delle votazioni avrebbero dovuto essere iscritte nel colonnato
del Vittoriano, secondo il progetto originario del Sacconi.
Tuttavia, chi aveva combattuto per l'Italia libera, indipendente, unita soffrì
la mancanza di un vero momento costituente, che si esprimesse in una assemblea
eletta, nella quale si potessero confrontare le diverse anime del nostro
Risorgimento.
Era mancato quel patto solenne, quel "giuramento" tra i
cittadini che, non a caso, aveva ispirato nel Manzoni i versi di "Marzo
1821", che aleggiava nelle pagine delle grandi opere sulla storia delle
antiche repubbliche, marinare e comunali, nella musica e nel melodramma dei
nostri compositori. Ispirazioni artistiche e storiche che ai patrioti di allora
apparivano prefigurazioni di una "assemblea costituente" che
solo la Repubblica Romana del 1849 seppe tentare - sotto i cannoni dell'assedio
di Roma - e che soltanto con la Repubblica Italiana, il 2 giugno 1946, venne
realizzata.
L'unità fu il risultato dell'agire di molti uomini, mossi da motivazioni per
più aspetti differenti, ma animati da uno stesso spirito.
Come si può dimenticare il genio militare di Garibaldi, che seppe combattere e
vincere, quasi sempre in condizioni di inferiorità numerica?
Come si può dimenticare il genio diplomatico di Cavour, la sua dedizione
illuminata alla costruzione della macchina amministrativa dello Stato, alla
nascita di un'economia moderna?
Ma non dobbiamo neppure dimenticare che l'unità non si sarebbe realizzata se,
dopo la sfortunata rivoluzione del 1848, Vittorio Emanuele - accogliendo il
consiglio dei suoi collaboratori più illuminati - non avesse conservato al
Piemonte lo Statuto e il Tricolore, se non avesse accolto in Piemonte migliaia
di esuli da ogni parte d'Italia, come Scjaloia, Poerio, Spaventa, Ferrara, De
Sanctis, Tommaseo. Questo è il grande merito di colui che ancora oggi
ricordiamo come Padre della Patria.
Per capire lo spirito di quello che accadde in quei giorni, di come fu possibile
che accadesse, dobbiamo rileggere la lettera che Farini scrisse a Cavour da
Teano, il 27 ottobre 1860: "Facemmo insieme tutta la strada da
Presenzano a Teano, Garibaldi alla sinistra del Re, noi tutti, generali,
ministri, ufficiali mescolati con le Camicie Rosse a cavallo, lombardi, veneti,
inglesi, piemontesi, genovesi e romagnoli. Dal Re a Pangella, volere o non
volere, diventammo tutti una banda di garibaldini…".
Siamo tornati ora a pronunciare, senza remore e senza retorica, giustamente e
finalmente, la parola "Patria". E' una parola impegnativa,
nobile, che fa riflettere. Non la si può pronunziare senza interrogarsi su cosa
significa, su quali doveri porta con sé. Per Giuseppe Mazzini "la
Patria è una comunione di liberi e d'uguali affratellati in concordia di lavori
verso un unico fine. La Patria non è un aggregato, è un'associazione. Non vi
è Patria dove l'uniformità di quel diritto è violata dall'esistenza di caste,
di privilegi, d'ineguaglianze".
Queste parole del Mazzini rilette oggi, mentre celebriamo la costruzione
dell'Italia unita, ci inducono a onorare i Padri Costituenti che, nel 1947,
seppero realizzare l'ideale dell'unità d'Italia inteso come unità morale e
politica delle volontà di uomini e donne, liberi e uguali. Lo fecero iscrivendo
i diritti fondamentali del cittadino quale fondamento giuridico della vita
stessa della comunità nazionale.
L'alto insegnamento di civiltà di quelle pagine che danno origine alla nostra
Repubblica è vivo, operante, fonte di ispirazione anche per le scelte europee
che abbiamo fatto e che stiamo per fare.
Carlo Cattaneo definisce la Patria "un comune nascimento di
pensieri" e tutto il suo programma federalista è concepito come una
forma più ricca di unità, superiore a quella degli Stati accentrati, nella
convinzione che la vera unità è quella che conserva il pluralismo e trae forza
da esso. E non a caso Cattaneo celebra nei suoi scritti il momento in cui "liguri,
subalpini e toscani" nel 1848 adottarono il Tricolore "a segno
di unità".
Sulla piazza di San Marco a Venezia, il 22 marzo 1848, Daniele Manin, salito in
piedi sul tavolo di un caffè, pronunciò queste parole: "Non basta aver
abbattuto l'antico governo, bisogna altresì costituirne uno nuovo, e il più
adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate e le
libertà presenti. Con questo formeremo uno di quei centri che dovranno servire
alla fusione successiva, e poco a poco, di far di questa Italia un sol
tutto".
E fu proprio l'eroe veneziano il primo Presidente della Società Nazionale che
impostò il compromesso tra i repubblicani e Vittorio Emanuele, per un programma
concreto di indipendenza nazionale.
Solo la Repubblica ha saputo costruire il regionalismo, lo sviluppo
dell'autogoverno, delle autonomie locali. Posso testimoniare il senso di
soddisfazione e di speranza quando la Costituzione repubblicana accolse il
progetto delle Regioni d'Italia. Apparve a noi, giovani di allora, una grande
conquista di libertà, un arricchimento per la Nazione. E' un programma che oggi
trova un nuovo impulso costituzionale, che deve essere portato avanti per
promuovere un governo migliore e dunque per sviluppare la coscienza di
collaborare tutti alla realizzazione del bene collettivo.
Pochi giorni fa, il 4 novembre, sui campi di San Martino vicino al Lago di Garda
ho ricordato una delle battaglie che hanno fondato la Nazione.
La battaglia per le libertà degli italiani non fu mai isolata; venne vissuta
insieme ai popoli d'Europa: greci, polacchi, ungheresi, tedeschi. L'Inno
di Mameli - il canto degli insorti del 1848 - ci ricorda quella lotta comune.
Non a caso tutti questi popoli si trovano oggi insieme a progettare un nuovo
avanzamento nella costruzione delle istituzioni comuni, di una Unione Europea
più grande e più coesa.
Per significato profondo, ciò che accade in Europa è simile a quello che
l'Italia visse un secolo e mezzo fa.
Anche oggi, come allora, le coscienze dei giovani vanno più avanti delle
realizzazioni. I giovani d'Europa sentono già l'importanza della bandiera
azzurra con dodici stelle, dell'"Inno alla Gioia"; sentono già
l'importanza dei legami giuridici e delle libertà comuni che abbiamo
conquistato.
Sta in noi essere all'altezza e costruire istituzioni che rendano effettivo
l'esercizio della cittadinanza europea. In questo sappiamo di avere il conforto
degli ideali, delle speranze, del pensiero e dell'azione degli artefici del
Risorgimento d'Italia.
Viva l'Europa, Viva l'Italia.