Como 03/03/2004

Visita del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, alla città di Como. Incontro istituzionale con le Autorità locali.

VISITA DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
ALLA CITTA' DI COMO

Incontro istituzionale con le Autorità locali

Como, 3 marzo 2004

Signor Ministro,
Signor Presidente del Consiglio Regionale,
Signor Presidente dell'Amministrazione Provinciale di Como,
Signor Sindaco di Como,
Autorità militari, civili e religiose,
Cari Sindaci della Provincia di Como,
Signore e Signori,
sono particolarmente lieto che accogliate tutti quanti, con una presenza dimostrata da tutti i vostri Tricolori, dalle vostre Fasce, l'invito a partecipare a queste occasioni di incontro con tutte le Province d'Italia. Per me è un modo di mandare, attraverso voi, un saluto agli ottomila Comuni d'Italia. Non posso visitarli tutti ma idealmente, vedendo in ogni Provincia i rappresentanti di ogni Comune, ho un contatto, attraverso voi, con la popolazione degli ottomila Comuni italiani.
Vi ringrazio, anzitutto, per il calore della vostra accoglienza, per la cortesia delle vostre parole. Ho particolarmente apprezzato gli interventi del Sindaco e del Presidente della Provincia per la loro concretezza, per avere messo l'accento sui maggiori problemi della vostra comunità e voglio aggiungere che sono con voi nell'augurarmi l'introduzione in Italia un federalismo più produttivo, innovativo alla sola condizione, per me irrinunciabile, di mantenere intatta l'unità della nostra Patria.
Ritornare a Como - parlo di ritorno perché, in altre responsabilità da me ricoperte e in occasione di partecipazione a convegni tante volte sono venuto a Como, nella vostra Provincia intorno al vostro magnifico lago - certamente, vuol dire rimetter piede in uno dei luoghi magici del paesaggio italiano; di un paesaggio che deve la sua bellezza tanto alla Natura quanto alla nostra lunga storia di civiltà, all'opera dell'uomo che ha creato, nel corso dei secoli, non soltanto monumenti insigni, ma luoghi dello spirito. In Italia, e forse solo in Italia, non è retorica rievocare antenati di mille o duemila anni fa; non è retorica, a Como, ricordare come concittadini illustri i due Plinio, intellettuali, naturalisti, umanisti; o i maestri comacini, costruttori di bianche cattedrali; o Alessandro Volta, che aprì un'era nuova per la scienza.
Quando affrontiamo i problemi del tempo presente, lo facciamo, dobbiamo sempre farlo, con la forza che ci viene dalla ricchezza delle memorie storiche. Carichi di un grande patrimonio di civiltà, guardiamo a orizzonti sempre più vasti. L'Europa - e voi siete al centro dell'Europa - è oramai divenuta la nostra patria: per le nostre imprese, è mercato interno, il mercato di casa. Al tempo stesso, l'America non è più "il Nuovo Mondo": sono nati altri Nuovi Mondi - anche se Paesi di antica civiltà - che hanno nome Cina o India, propongono nuove sfide e nuove opportunità, che aprono nuovi spazi al nostro ingegno, al nostro spirito d'intrapresa.
Certo, sono anche difficili e pericolosi concorrenti, ma ricordate che proprio in questi grandi Paesi di milioni di abitanti - la stessa Russia, la Cina, l'India con reddito pro-capite basso o relativamente basso - vi sono tuttavia delle nicchie; e sono nicchie di decine di milioni di potenziali consumatori, di persone ad alto reddito per i quali i prodotti di qualità, come quelli italiani, possono veramente avere accesso e avere successo.
Questa è un'epoca di passaggio, nella storia dell'economia e della società italiana. La viviamo come una prova difficile, ma certo non insuperabile. Non è la prima volta che ciò accade, nell'arco di vita degli uomini della mia generazione. Spesso si dimentica quel che significò per l'Italia, cinquant'anni fa, la nascita di quello che si chiamò "il Mercato Comune". A molti imprenditori apparve come un salto nel buio: un azzardo irresponsabile l'avventurarsi in un viaggio su un fragile vascello, stivati, noi italiani, vasi di coccio, in mezzo a robusti vasi di ferro. Quanti dubbi, quante preoccupazioni, quante paure! Ci chiedevamo se saremmo stati all'altezza della prova a cui ci accingevamo.
Ebbene, lo siamo stati. La prova stessa accrebbe le nostre forze, il nostro impegno: il confronto con altri, che erano certamente più forti di noi, ci obbligò a dare il meglio di noi stessi, a migliorarci. Nei mercati in cui alcuni vedevano soprattutto degli insuperabili concorrenti, trovammo anche spazi per le nostre imprese, clienti per i nostri prodotti, partners per le nostre iniziative. Dal confronto ricevemmo molti stimoli vitali. Avvenne quello che allora fu chiamato "il miracolo italiano".
Alcuni grandi spiriti lo avevano previsto. Fin dal 1944 - attenzione alla data, la guerra stava allora entrando nel vortice apocalittico della sua conclusione - Luigi Einaudi, guardando a quello che sarebbe stata, un giorno, un'Europa nuovamente in pace, non riteneva necessaria soltanto la costruzione di un unico spazio doganale, dove capitali, merci e persone potessero muoversi liberamente, ma giudicava inevitabile l'abolizione del diritto degli stati federati europei di batter moneta propria, e la nascita di una moneta unica: battuta - scriveva Einaudi - da una sola Zecca o Banca centrale, "con impronte diverse per ogni stato ma con denominazione, peso e titoli uniformi". Ed è esattamente questo che è accaduto, dopo più di mezzo secolo. Quando abbiamo dato vita all'euro, non abbiamo fatto nulla che non fosse già stato ritenuto necessario da Luigi Einaudi, con intuizione profetica, per il bene nostro e di tutti gli Europei.
L'euro ha reso irreversibile l'integrazione europea, e con essa i grandi vantaggi assicurati dal mercato unico a tutti i Paesi membri, divenuti nel tempo sempre più numerosi. L'euro ha eliminato le crisi monetarie che periodicamente ci ferivano e ci umiliavano, le svalutazioni forzate della lira che davano una nuova spinta all'inflazione e colpivano i bilanci delle nostre famiglie facendo aumentare i prezzi: anche i prezzi delle merci di esclusiva produzione interna. Gli Italiani lo ricordano bene.
I politici - De Gasperi, Saragat, Segni, Martino, La Malfa e altri ancora - che resero possibile l'ingresso dell'Italia nel novero dei sei Paesi fondatori della Comunità Europea, avevano visto giusto, e guardato lontano; avevano avuto fiducia nel potenziale di sviluppo del nostro Paese, nell'ingegno e nella voglia di fare dei nostri imprenditori, dei nostri lavoratori. I fatti hanno dato loro ragione.
Se riportiamo alla mente le ragioni del nostro successo, quando incominciammo a navigare con sempre minori supporti e protezioni nel gran mare del Mercato Comune europeo, non possiamo limitarci a ricordare il vantaggio che ci derivò, per un certo periodo di tempo, dai minori costi del lavoro. Il successo nacque da una molteplicità di fattori.
Il progresso economico non è un fenomeno indipendente dal quadro politico e istituzionale in cui si sviluppa. Non a caso, nell'Italia di quegli anni, esso si accompagnò a un più generale avanzamento del nostro Paese anche sotto questi profili. La centralità e il forte impegno del Parlamento; il buon funzionamento delle istituzioni e l'equilibrio dei poteri secondo il dettato della Costituzione; l'ordine pubblico assicurato, anche contro gravi attacchi eversivi, dalla Polizia di Stato, dai Carabinieri, dalla Guardia di Finanza, sostenute da un vasto consenso popolare, consentirono un'opera di governo efficace, anche grazie al confronto tra forze sociali e politiche che, pur divise e contrapposte, si rispettavano.
Ancora oggi, la fiducia che io spesso esprimo in queste strutture portanti del nostro ordinamento costituzionale, è al tempo stesso fiducia nella Nazione e fiducia nelle nostre istituzioni, a cominciare da quelle di garanzia, che dimostrano, con il loro operato, di saper assolvere i loro compiti con indipendenza e senso dello Stato.
In quel quadro politico-istituzionale, in anni decisivi per la Repubblica, un vento di progresso investì tutta la società italiana. Qualcosa di non molto diverso sta ora accadendo nei Paesi dell'Est europeo, nuovi membri dell'Unione, dal momento che si sono liberati dalle pastoie di una soffocante, ferrea pianificazione di Stato; e in luoghi più remoti, come la Cina, l'India e altri ancora, che vivono una stagione di crescita simile a quella che noi abbiamo vissuto quasi mezzo secolo fa.
Non dimentichiamo neppure che se noi temevamo, allora, l'ingresso in un Mercato europeo competitivo ed aperto, i nostri nuovi soci temevano, a loro volta, la concorrenza che avremmo potuto esercitare nei loro confronti, grazie ai nostri minori costi di manodopera o sociali. Non vincemmo noi, a scapito di altri. Vincemmo tutti. E' troppo ottimistico prevedere che lo stesso accadrà - a condizione che la liberalizzazione sia ben governata - anche nel corso del nuovo processo di formazione di un mercato globale?
Una risposta positiva dipende per l'appunto dalla capacità di governare l'economia globale, e dalla capacità di autogovernarsi bene, da parte dei Paesi leader dell'economia mondiale, fra cui a tutto diritto l'Italia si colloca.
Oggi abbiamo problemi: oltre a quelli transitori connessi alle modalità, generali e specifiche dei singoli Paesi, di attuazione del cambio della moneta, il problema principale sta per l'Unione europea nella scarsa crescita, nel sostanziale ristagno dello sviluppo: è mancata, dopo la creazione della moneta unica europea, una politica coordinata di tutte le istituzioni per promuovere lo sviluppo. Una politica coordinata che si ponesse obiettivi ben definiti e condivisi nell'ambito delle istituzioni europee.
Questo insieme di problemi, come emerge anche dai discorsi che abbiamo ascoltato, è particolarmente sentito in un territorio come quello comasco, di radicata e forte tradizione industriale in settori come la seta, il legno e il mobile, la meccanica, dove fioriscono imprese che sono leader mondiali per la qualità del prodotto. La risposta giusta da dare alla sfida del mercato globale, per coglierne le opportunità e non soffrirne i possibili danni, è necessariamente complessa, e non spetta soltanto agli imprenditori, o alle autorità di governo locale, o allo Stato italiano, o all'Unione europea. Tutti debbono fare la propria parte.
E' giusto difendersi dalla concorrenza sleale, dal dumping commerciale e sociale, dalla contraffazione dei marchi, senza ricorrere all'imposizione di dazi che ritarderebbero soltanto la resa dei conti, e che provocherebbero contromisure dannose a noi stessi. E' altresì necessario che l'analisi critica delle condizioni per vincere la sfida della globalizzazione dei mercati parta da una riflessione sui problemi di casa nostra, e su come affrontarli.
In verità, le risposte giuste si stanno già definendo e almeno in parte realizzando. E voi lo dimostrate. Nel corso di questa giornata, le visite che farò, qui a Como all'Istituto "Paolo Carcano" e alla Fondazione Setificio, e a Cantù all'Istituto "Melotti", tendono a sottolineare l'importanza determinante che hanno la formazione - a tutti i livelli fino a quelli universitario e post-universitario - e la ricerca, per rafforzare il tessuto industriale. So che questo si sta riorganizzando, nel vostro territorio, anche nelle sue reti produttive e commerciali, con una ricomposizione interessante e originale dei tradizionali distretti "sulle reti lunghe della internazionalizzazione", per usare una suggestiva espressione di conio comasco. La capacità di aprirsi all'innovazione; di qualificare sempre più la produzione nella fascia alta del mercato, e di creare figure imprenditoriali nuove, che facciano da tramite fra la domanda del mercato globale e la vostra filiera produttiva, sono condizioni determinanti del successo. Voi questo lo state già facendo.
E' egualmente chiaro che una parte importante della risposta giusta tocca alle autorità di governo locale e nazionale, oltre che europeo. Per esempio, lo abbaimo appena ascoltato, i ritardi della realizzazione della Pedemontana; da 40 anni si parla del progetto, ma non si realizza. Certamente ci saranno problemi di finanziamento ma il problema principale è l'accordo sul trattato; questo compito spetta soprattutto a voi, cioè all'accordo fra le varie Autorità comunali, provinciali e regionali. Questo obiettivo dovete raggiungerlo. I ritardi nella realizzazione delle infrastrutture materiali, necessarie per abbassare i tempi e i costi della produzione in una Regione fortemente industrializzata e antropizzata come la vostra, sono dannosi e ingiustificabili: penso anzitutto alle vie di comunicazione, di cui mi avete parlato. I tavoli d'incontro fra pubblico e privato, e fra i vari livelli dell'amministrazione, devono produrre progetti mirati, impegni e programmi esecutivi concreti, non esaurirsi in consultazioni o confronti estenuanti e inconcludenti. Solo così si realizzano le opere: ponendosi l'obbligo di raggiungere l'intesa, di stabilirne i tempi, di seguirne l'esecuzione con quello che io chiamo il regolare monitoraggio delle opere in corso. La quantità in tutte le regioni d'Italia delle opere iniziate e incompiute risale a centinaia e centinaia. Ne feci un primo elenco quando ero Ministro del Tesoro. Qui si tratta di opere cominciate ma non terminate, progettate come la Pedemontana. Si tratta di fare delle scelte, confermare quelle che si ritengono ancora valide e necessarie. Poi impegnarsi concretamente diventa un impegno dell'Amministrazione: ci si assume un mandato che dura quattro, cinque anni e si propone che entro la fine del mandato l'opera sia compiuta o avviata e raggiunga un livello di realizzazione. Questo impegno bisogna sentirlo e avvertirlo come un vincolo. Bisogna porsi degli obiettivi. Uno piccolo che io mi sono posto è di visitare tutte le 103 Province d'Italia e, in maniera sistematica, lo sto realizzando. Questa è la 77esima visita che faccio e ho già programmato per i prossimi due anni la visita alle altre 26 Province. So già quando andrò a Salerno, quando andrò ad Arezzo, a Massa Carrara e a Crotone. Realizzerò questo programma, salvo motivi di forza maggiore.
Il decentramento dei poteri amministrativi, su cui già ho espresso la mia opinione, non deve frenare, bensì accelerare il processo decisionale; deve rendere più efficiente, più operativa la burocrazia.
A livello nazionale, l'Italia, come altri, sta seguendo da tempo la via giusta sintetizzata nello slogan "meno Stato, più privato": la via delle privatizzazioni, e del risanamento del pubblico bilancio per dare spazio al risparmio e agli investimenti dei privati, e ad auspicabili riduzioni, nel tempo, del carico fiscale. La ripresa della crescita, in ambito nazionale, europeo, globale, è al tempo stesso precondizione ed effetto del progresso di ciascuno dei principali attori sulla scena globale. L'Italia è uno di questi.
Infine, come qui del resto è già stato detto, alle tradizionali ruote su cui gira, e continuerà a girare a livelli sempre più qualificati, l'economia di questi territori - seta, legno, meccanica - se ne aggiunge un'altra, il turismo: un turismo un po' particolare, che non potrà mai essere turismo di massa; ma che qui, come altrove in Italia, può rendere più produttive le straordinarie ricchezze paesistiche e artistiche di questo territorio, che forse non ha l'eguale al mondo. Anche la crescita di questo settore richiede investimenti pubblici e privati, capacità progettuale, miglioramento delle vie di comunicazione, sviluppo di attitudini imprenditoriali.
Concludo: è caratteristico della realtà italiana il fatto che, nell'arco di poche decine di chilometri di distanza tra un territorio e l'altro, si propongano modelli di sviluppo molto diversificati. Dietro le diversità delle soluzioni operano alcune "costanti" di base: come la ricerca, lo studio delle proprie inclinazioni naturali e storiche, la capacità di interpretarle, qualificarle e svilupparle in relazione alle esigenze dei tempi moderni. Questo è uno sforzo collettivo e individuale, in ogni area omogenea; richiede impegno, passione, tenacia.
L'Italia d'oggi è, come è sempre stata, un grande mosaico di realtà, di bellezze diverse, antiche e moderne. Nel percorrerla da un capo all'altro, come io sto facendo da qualche anno, scorre davanti agli occhi un succedersi di quadri suggestivi. Lungo il percorso, si raccolgono testimonianze innumerevoli di capacità operative e produttive intatte e forse crescenti. Se ne trae, come ho già accennato, un messaggio complessivo di concreta fiducia e di speranza nel nostro domani, che contraddice un certo costume autolesionistico, purtroppo anch'esso diffuso.
Questo è il messaggio che colgo anche qui, a Como, città della seta, ricca di testimonianze dell'età comunale e rinascimentale, che introduce il visitatore alle ineguagliabili atmosfere del vostro lago, "coppa di luce", come fu definito più di cent'anni fa. Vi ringrazio e auguro a tutti voi un lavoro sereno e produttivo.
A voi giovani, in particolare, l'augurio che il successo nella sfida in atto, alla quale state già partecipando con l'impegno crescente nella vostra formazione, apra la via a nuovi luminosi orizzonti.