Rivolgo un saluto ai Presidenti del Senato, del Consiglio, della Corte Costituzionale, alla Vice Presidente della Camera, a chi ci segue da altre sale del Palazzo e da lontano.
È l’8 marzo.
Sharon,
Victoria,
Roberta,
Teodora,
Sonia,
Piera,
Luljeta,
Lidia,
Clara,
Deborah,
Rossella.
Sono state uccise undici donne, in Italia, nei primi due mesi di quest’anno.
Sono state uccise per mano di chi aveva fatto loro credere, di amarle. Per mano di chi, semmai, avrebbe dovuto dedicarsi alla vicendevole protezione.
Ora siamo di fronte a una dodicesima uccisione: quella di Ilenia.
L’anno passato le donne assassinate sono state settantatré.
È un fenomeno impressionante, che scuote e interroga la coscienza del nostro Paese.
Un distorto concetto del rapporto affettivo – che, non a caso, si trasforma in odio mortale – è alla base dei gravi e inaccettabili casi di femminicidio. Una mentalità che, al dunque, è soltanto possesso, bramosia, dominio e, in fin dei conti, disprezzo.
L’amore, quello autentico, si basa sul rispetto e sulla condivisione. Se si giunge a uccidere una donna è perché non si rispettano il suo desiderio di libertà e la sua autonomia. Perché ci si arroga il potere di non consentirne le scelte, i progetti, le aspirazioni.
A distanza di settantaquattro anni dall’approvazione della nostra Costituzione – che ha sancito, in via definitiva, l’eguaglianza e la parità tra tutte le persone, senza distinzioni – gli orribili casi di femminicidio - che reclamano giustizia - ci dicono che la legge, da sola, non basta. Che un principio deve essere affermato, ma va anche difeso, promosso e concretamente attuato.
Ringrazio chi stamani è intervenuto. Silvia Avallone, che ci ha offerto un originale e convincente punto di vista sulla questione femminile. La ministra della Famiglia e delle Pari opportunità, Elena Bonetti, per le sue parole, che attestano l’impegno delle istituzioni su temi così delicati e importanti per la nostra crescita, per quella della nostra comunità nazionale. Grazie a chi ha reso questa nostra cerimonia più intensa, con le parole e con la musica: le bravissime Matilde Gioli e Manuela Cricelli. Complimenti e grazie. Vorrei ringraziare anche Marta La Licata, autrice di questo significativo filmato di Rai Cultura, e Patrizia Cescon che ha curato la scenografia di questo incontro. Permettetemi anche di ringraziare il maestro Peppe Platani, unica persona di genere maschile in questa lista. Ci ha offerto la sua grande maestria.
Questo 8 marzo, purtroppo, si svolge ancora sotto il segno della pandemia, che ha appesantito la nostra esistenza, causando un numero senza precedenti di vittime e provocando immani problemi economici e sociali, e tanti altri problemi gravi di relazioni umane. Un fenomeno planetario imprevisto che ha messo a dura prova la capacità di resistenza dei cittadini e la stessa convivenza civile.
La diffusione del Covid, come sempre accade nei periodi difficili, ha colpito maggiormente le componenti più deboli ed esposte. Le donne tra queste.
Dal punto di vista occupazionale anzitutto. Secondo l’Istat abbiamo 440 mila lavoratrici in meno rispetto a dicembre 2020. Mentre sono a rischio un milione 300 mila posti di lavoro di donne che operano in settori particolarmente colpiti dalla crisi.
L'occupazione femminile è tornata indietro. Ai livelli del 2016, ben al di sotto del 50% raggiunto per la prima volta nel 2019. La causa principale è stata la crisi del settore dei servizi, nel quale lavora l'85% delle donne.
Non preoccupano soltanto i dati quantitativi. Peggiora la qualità del lavoro delle donne, con un picco di contratti part-time non volontari, con l’aumento dei lavori a tempo determinato e con una riduzione delle condizioni di conciliazione vita/lavoro.
La situazione femminile si fa critica anche dal punto di vista sanitario. L’Inail ha messo in luce, in un recente studio, che quasi il 70 per cento dei contagi denunciati sui posti di lavoro riguarda le donne.
Le categorie professionali più colpite come contagi per le donne riguardano soprattutto il settore sanitario.
È dunque doveroso che la Repubblica rivolga un pensiero di forte gratitudine e riconoscenza alle tante donne che ormai da un anno si stanno impegnando negli ospedali, nei laboratori, nelle zone rosse per contrastare la diffusione del coronavirus. Esse lavorano in condizioni difficili, con competenza e con abnegazione, con spirito di sacrificio e con la caratteristica capacità di sopportare grandi carichi di lavoro.
A loro, in special modo, desidero dedicare questa importante giornata.
L’8 marzo costituisce ogni anno un’occasione preziosa per fare il punto sulla condizione femminile, registrandone i progressi e ponendo in evidenza gli aspetti critici.
Poco più di sessanta anni fa una storica sentenza della Corte Costituzionale - la numero 33 del 1960 – ebbe a cancellare una legge anacronistica del 1919, allora ancora in vigore, che escludeva le donne da tutti gli incarichi pubblici.
Fu il ricorso di una donna tenace e coraggiosa – Rosa Oliva - a provocare la cancellazione di una norma ingiusta e discriminatoria, in palese contrasto con la Costituzione. In quanto donna era stata esclusa da un concorso per il Ministero dell’Interno.
Per sanare una ferita così grave sul piano dei diritti intervenne la Corte Costituzionale, non il Parlamento: una circostanza che fa riflettere e fa comprendere quanti ritardi e resistenze culturali abbiano costellato la via dell’effettiva parità.
Si era evidentemente affievolita la spinta che aveva condotto, nel gennaio 1945, ancor prima della Costituente, a disporre di chiamare al voto le donne. Come avvenne, in quasi tutti i comuni d’Italia, il 10 marzo di settantacinque anni fa.
Molta strada si è fatta da quella sentenza storica. Oggi in alcuni ambiti del pubblico impiego si è verificato addirittura il sorpasso, e la percentuale di donne che vi lavorano è superiore a quella degli uomini.
In Magistratura ad esempio. Come proprio al Ministero dell’Interno. In realtà, non è sorprendente tenendo conto che nella popolazione italiana le donne sono in un numero sensibilmente superiore a quello degli uomini.
Se si guarda però ai livelli apicali la predominanza rimane ancora maschile. Così accade soprattutto ai vertici dei consigli di amministrazione di imprese e società pubbliche e private.
La sola libertà di accesso agli impieghi pubblici e privati, infatti, non risolve interamente il problema dell’occupazione femminile, di fronte a una evidente disparità nella progressione di carriera e nella ingiustificabile differenza di retribuzione. Per non parlare delle discriminazioni sul posto di lavoro, in forme che talvolta rasentano la costrizione e la violenza.
Ho ricordato la persistenza dei gravissimi casi di femminicidio, di violenze e di abusi intollerabili. Allo stesso modo, va acceso un faro sulle forme – meno brutali, ma non per questo meno insidiose - della cosiddetta violenza economica, che esclude le donne dal controllo e dalla gestione del patrimonio comune o che obbliga la donna ad abbandonare il lavoro in coincidenza di gravidanze o di problemi familiari. Pensiamo all’odioso ma purtroppo diffuso fenomeno della firma delle dimissioni in bianco. Questioni gravi e dolorose, che incidono profondamente sulla vita delle donne. Questioni che richiedono, per essere risolte, il coinvolgimento attivo di tutti: uomini e donne, uniti, contro ogni forma di sopraffazione e di violenza, anche se larvata.
Tra i cosiddetti “esempi civili” che ho premiato l’anno scorso con l’onorificenza al merito della Repubblica c’è un imprenditore di Trieste. Avendo saputo che una sua dipendente precaria era incinta e temeva il licenziamento, l’ha assunta a tempo indeterminato e le ha anche assegnato un aumento di stipendio. Un gesto di grande significato.
Ma vorremmo, nel prossimo futuro, che questi gesti non fossero comportamenti eccezionali, da premiare, ma gesti normali, anche incoraggiati da una rimodulazione delle politiche sociali ed economiche.
Vanno incrementati gli sforzi per restituire dignità al lavoro delle donne e per far fronte alla crisi demografica. Calo demografico e carenza di occupazione femminile sono tra i fattori più rilevanti del rallentamento della crescita economica; e sono fra essi strettamente collegati.
Va ricordato, ancora una volta, che dove cresce il lavoro femminile, dove cresce la buona occupazione, anche la natalità è più elevata e i giovani ricevono una spinta positiva per i loro progetti di vita.
Politiche per la famiglia, sostegno alla maternità, potenziamento dei servizi, conciliazione con i tempi di lavoro e con quelli di cura rappresentano un elemento di fondamentale importanza per la crescita del nostro Paese.
Il tema dell’8 marzo di quest’anno “Con rispetto educando”, in qualche modo, riassume e contiene tutte le problematiche di cui oggi abbiamo trattato.
Perché disparità economiche, discriminazioni e violenze sono tutte figlie della stessa radice. Figlie di una mentalità dura a scomparire, che si annida anche nei luoghi più impensabili e tra le persone più insospettabili. Un’ottica antiquata, fuori dalla storia della civiltà, paralizzante che non conosce confini geografici, di censo, di livello di istruzione, e che fondamentalmente assegna alla donna un ruolo e una funzione di secondo piano. Un passo indietro. Sempre, ovunque e comunque.
Rispetto significa, innanzitutto, riconoscere all’altra persona, con le sue specificità, la stessa identica dignità che ognuno riconosce a se stesso, con eguali capacità, con eguali diritti. Educare al rispetto significa farne crescere una piena consapevolezza.
Il rispetto verso le donne conosce molte declinazioni. Sul piano del linguaggio, innanzitutto. Dobbiamo respingere le parole di supponenza, quando non di odio o di disprezzo verso le donne. Parole che generano e alimentano stereotipi e pregiudizi ottusi e selvaggi, determinando atteggiamenti e comportamenti inaccettabili.
Compromettere l’autonomia, l’autodeterminazione, la realizzazione di una donna esprime una fondamentale mancanza di rispetto verso il genere umano.
Il rispetto è alla base della democrazia e della civiltà del diritto, interno e internazionale. Per questo il rispetto delle donne è questione che attiene strettamente alla politica.
Rispettare si impara, o si dovrebbe apprendere, fin da piccoli. Sui banchi di scuola. In famiglia. Nei luoghi di lavoro e di svago.
La parità di genere non è quindi soltanto una grave questione economica e sociale. Ma è una grande questione culturale ed educativa.
Care amiche,
negli ultimi due secoli le donne sono state protagoniste di importanti rivoluzioni sociali e culturali, sono state – sovente e in diversi ambiti – i motori del cambiamento. Le donne hanno sempre aiutato a cogliere il valore universale e positivo della diversità, della solidarietà, della condivisione, della pace.
Rispettare e ascoltare le donne vuol dire lavorare per rendere migliore la nostra società.
Grazie e buon otto marzo.