“Ho servito il Paese con correttezza istituzionale e dignità morale”. Con queste parole il Presidente della Repubblica Giovanni Leone si congedava dagli italiani alla vigilia del “semestre bianco” che avrebbe preceduto la conclusione del suo mandato. Ennesima testimonianza, ove ce ne fosse stato bisogno, dell’altissima sensibilità istituzionale che per tutta la sua vita ne aveva ispirato le scelte.
L’esercizio delle funzioni alle quali venne chiamato portò anche alla definizione di Leone “uomo solo”.
Forse la solitudine è coessenziale alla funzione di Presidente della Repubblica. Ma nessun uomo è solo se sceglie di mantenere la sua libertà, avendo come limite l’obbedienza alla propria coscienza.
Sono molto lieto di accogliere oggi al Quirinale, la Casa degli Italiani, la signora Vittoria, i figli e i familiari del Presidente Leone. Benvenuti.
Gli interventi del professor Giovagnoli e del dottor Letta hanno messo bene in luce caratteri, esperienze, vicende che hanno segnato la vita del prof. Giovanni Leone, insigne giurista del ‘900.
Per parte mia vorrei fare riferimento alle responsabilità che gli furono affidate dalla Repubblica in momenti difficili.
Nella vita di ogni comunità – e quella politica non fa eccezione – si manifestano momenti di difficoltà, di incomprensione, di stallo, in cui la nave sembra rifiutarsi di proseguire, le macchine paiono smettere di funzionare. Questo, naturalmente, applicato alla vicenda politica può portare a conseguenze imprevedibili.
Entrano in campo allora le forze della saggezza e della conciliazione per riannodare il dialogo, per far proseguire il cammino, per aprire nuovi orizzonti.
Come non vedere nella figura di Giovanni Leone una di queste forze, nella sua disponibilità a soccorrere il sistema politico, le istituzioni che si trovava a servire, per superare contrasti e per consentire un ordinato democratico funzionamento delle istituzioni?
Fu così nel giugno del 1963, con un governo di tregua al quale veniva affidato “un compito determinato nel contenuto e, quindi, nel tempo”.
Sarebbe stato ancora così nel maggio del 1968, con il secondo Governo Leone.
In entrambi i casi, passi necessari per consentire una evoluzione del quadro politico e la prosecuzione ordinata della vita istituzionale del Paese.
Non ebbe remore ad abbandonare un ruolo preminente e una responsabilità che pure gli era congeniale, quella della guida dell’assemblea di Montecitorio, per un incarico di primaria importanza ma esplicitamente di breve durata.
Coraggio e generosità quindi nella disponibilità a corrispondere all’interesse generale della vita della Repubblica.
A Leone apparteneva la visione di un ordinato sviluppo sociale. Lo si rileva nel discorso che il Presidente della Repubblica tenne a rappresentanti delle Regioni, il 24 luglio del 1974. Giovanni Leone chiamò le istituzioni a raccolta per “stroncare, con l’impegno di tutti e con azione chiara e vigorosa - siamo a dopo l’attentato di Piazza della Loggia, a Brescia – i tentativi di sovvertimento del nostro libero ordinamento”.
Il momento è grave, proseguiva il Presidente, consapevole che occorreva fare rinascere la fiducia “nel cuore della nostra gente”, indicando la necessità di “un’opera di lenta ricucitura del tessuto sociale”, di un “impegno operoso, umile, quotidiano, di ognuno”.
Quella della ricucitura, del rammendo, è tema che tornerà frequentemente nella pedagogia dei Presidenti che si sono succeduti al Quirinale.
Anni di piombo vennero definiti quelli degli anni ’70 per i tanti episodi di terrorismo, e Leone si trovò a invocare la necessità di un ordine democratico che fosse presupposto del progresso sociale.
Lo muoveva un profondo senso di legalità quella che – e riprendo un altro suo intervento alla Fiera di Milano nell’aprile del 1972 – “trova nella Costituzione repubblicana la sua più alta consacrazione e nel diritto la sua espressione”. Riprendeva così il tema della pace sociale, richiamata nel suo messaggio al Parlamento in occasione del giuramento da Presidente, il 29 dicembre 1971: “La pace sociale non significa rinuncia alle legittime aspirazioni e neanche alle spinte e alle sollecitazioni per farle valere: significa rinuncia al metodo della violenza e dell’intolleranza”.
Per proseguire: “Negli strumenti offerti dalla Costituzione c’è spazio per tutte le aspettative; ma c’è anche il richiamo vigoroso al rispetto delle istituzioni democratiche e alla libertà dell’individuo”.
Sono parole che suonano ancor oggi di estrema attualità.
Erano anni davvero difficili tanto che ritenne di dover tornare nuovamente sul tema in occasione della sua visita all’Assemblea della Regione Emilia-Romagna, nell'aprile del 1973.
Combattere con fermezza ogni violenza, ammonì: “la violenza assurda e intollerabile di coloro che, con azioni nelle quali la viltà è pari alla mancanza di qualunque ideale, mirano a colpire le istituzioni repubblicane nate dalla Resistenza”.
La questione della saldatura tra coscienza sociale e istituzioni animò il messaggio che rivolse al Parlamento il 15 ottobre 1975, con quello che venne ritenuto da giuristi autorevoli studiosi di grande livello uno dei massimi documenti sulla questione delle riforme istituzionali.
Tra gli altri temi trattati (bicameralismo, Cnel, pubblica amministrazione, Mezzogiorno, lo sciopero nei pubblici servizi), Leone ripropose la sollecitazione (già sottolineata dal Presidente Segni), di introdurre la non rieleggibilità del Presidente della Repubblica, con la conseguente eliminazione del semestre bianco.
Il messaggio era stato preceduto da una conversazione con Michele Tito, pubblicata sul Corriere della Sera nell'agosto precedente, in cui, fra l’altro, Leone affrontava la questione europea (avrebbe poi auspicato la elezione diretta del Parlamento Europeo, realizzatasi pochi anni dopo). Il Presidente respingeva l’idea di una tentazione egemonica dentro la CEE dei Paesi più forti per osservare, in merito all’Italia, che, tuttavia “diventa sempre più difficile fare valere le ragioni di “un paese in crisi”, segnato da “un clima di rinuncia”.
La scelta del suo nome quale Presidente della Repubblica non giunse certamente inattesa.
Già dal 1962, al momento della elezione di Antonio Segni, come ricorda Giorgio Vecchio nella voce biografica dedicata a Leone nei volumi sulle figure dei Presidenti, volle sottrarsi al tentativo delle opposizioni di sinistra di contrapporlo al candidato ufficiale della maggioranza parlamentare.
Ancora, nel 1964, a sua volta candidato ufficiale al Quirinale (a 56 anni!), non esitò a rinunciare per favorire la ricomposizione di un quadro politico e fu eletto Giuseppe Saragat.
Tre anni più tardi fu quest’ultimo a volerlo senatore a vita per “aver illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”. E sempre a Leone avrebbe fatto ricorso Saragat con l’incarico di formare il governo nel 1968.
Le sue qualità, del resto, erano apparse già manifeste dalla gioventù, e poi sin dall’esercizio del suo ruolo di giudice militare a Napoli durante la guerra.
Leone, docente universitario, avrebbe potuto usufruire della dispensa dal servizio militare: vi rinunciò e venne chiamato nel ruolo ausiliario della giustizia militare con il grado di tenente colonnello, assegnato al Tribunale Militare di Napoli.
L’encomio solenne, tributatogli dal Ministro della Difesa, Beniamino Andreatta, soltanto nel 1998, si riferisce al periodo immediatamente successivo all’armistizio dell’8 settembre 1943, con l’occupazione della città da parte dei nazisti.
Il carcere di Poggioreale ospitava detenuti per violazione del Bando Badoglio del 26 luglio 1943 che vietava le riunioni pubbliche e private. Tra di essi oltre quaranta esponenti comunisti. Il rischio della rappresaglia nazista era altissimo per i detenuti politici e, infatti, i tedeschi si recarono a Poggioreale per prelevarli e avviarli ai campi di concentramento ma trovarono soltanto gli ordini di scarcerazione già eseguiti: erano stati rilasciati. Perchè resistendo alla tentazione di darsi alla macchia, il ten. col. Leone, consapevole dei gravi rischi, aveva elaborato con i suoi colleghi una procedura per concedere la libertà provvisoria ai detenuti politici, liberati tutti tra l’8 e il 10 settembre.
Il nucleo operativo di quel Tribunale Militare si sciolse, inseguito, a quel punto, dai nazifascisti: Giovanni Leone trovò riparo a Pomigliano d’Arco, luogo natio del padre.
Lì - ricordò in una intervista al quotidiano Il Mattino, nell’ottobre 1995 - “fui nascosto nella chiesa, vestito da prete”.
Il Dottor Gianni Letta ha ricordato la relazione della commissione che l’avrebbe nominato professore ordinario in giovanissima età: “agilità ed acutezza d’ingegno; attitudine all’indagine e al coordinamento; equilibrio nelle soluzioni”.
Il suo pensiero si consolidò e si espresse poi alla Assemblea Costituente, alla quale era stato eletto nelle liste della Democrazia Cristiana, partito a cui aveva aderito seguendo le orme del padre che era stato esponente del Partito Popolare in Campania.
Troviamo, nei suoi interventi, una acuta sensibilità ai temi delle libertà del cittadino. Fu con il contributo suo e di Giuseppe Bettiol che si pervenne alla redazione dell’ultimo comma dell’art.25 della Costituzione che recita: “Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”.
Ancora, sul rispetto della persona umana, troviamo l’apporto di Leone all’art. 32 con l’introduzione del principio secondo il quale “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” nei trattamenti sanitari obbligatori stabiliti per legge.
Commentò Francesco Cossiga in un volume di studi raccolto da Giovanni Conso: il tratto distintivo di Leone fu “la garanzia dei diritti della persona umana”. Porre “il singolo al riparo dell’arbitrio dell’autorità”.
Nel dibattito della Costituente spicca la sua visione in materia di giustizia.
Nel dicembre 1946, nella seconda Sottocommissione, il costituente Leone interviene sul rapporto tra riforme legislative e criteri ermeneutici del giudice: “Nessuno - diceva - può rimanere insensibile ai fatti sociali; ma non bisogna temere la cristallizzazione del giudice; occorre, invece, evitare assolutamente la cristallizzazione della legge. Il giudice non deve essere altro che l’interprete della legge, nel senso più rigoroso e ortodosso. Le esigenze sociali, il palpito delle riforme sono fenomeni che debbono trovare la loro ripercussione entro la formula della legge; onde la necessità di fare leggi nuove che, rispondendo a queste esigenze, adottino formule di maggiore o minore elasticità. Bisogna sempre evitare un allargamento del potere giudiziario, che sarebbe pericoloso”.
Leone motiva poi le sue preoccupazioni: “In Germania, proprio con la dittatura nazista, si pretese di interpretare la sana coscienza popolare e si sostenne che il diritto non è scritto nel codice ma è nella coscienza del popolo: tale coscienza, però, era interpretata dal Fuhrer e dai suoi accoliti”.
Sarebbero preziosi, anche in questi nostri giorni, il suo pensiero e i suoi suggerimenti.
La presidenza Leone si caratterizzò per un forte richiamo ai valori dell’antifascismo e per la fedeltà ai valori della Resistenza, in particolare in difesa delle istituzioni repubblicane di fronte ai tentativi eversivi.
Nel corso della cerimonia per il conferimento della medaglia d’oro al valor militare alla Valsesia per attività partigiana, a Varallo, nel settembre del 1973, non usò mezzi termini. “Il fascismo – disse – costituisce una tentazione che si riaffaccia sovente nella storia dei popoli: è un modo per concepire uno Stato “forte”, forte non per consenso popolare , né per autorità di legge, né per consapevole disciplina, ma solo per il modo di conquista e esercizio del potere: un metodo di violenza, di sopraffazione delle libertà delle coscienze e del pensiero, di soffocamento di ogni voce, di ripudio del pluralismo sociale e politico quindi di accentramento di tutte le responsabilità nelle mano di un uomo o di una ristretta cerchia di uomini. E’ una tentazione che ricorre in talune svolte delle comunità nazionali, quando i problemi della società – tanto più gravi e talora angosciosi quanto più intenso è il ritmo del progresso che dal suo seno li esprime in correlazione a sperequazioni e mancate risposte alle istanze di giustizia– urgono nella loro importanza”.
L’aspirazione all’ordine – sottolinea – “non deve essere appagata annullando o schiacciando la libertà”.
La fibrillazione politica condusse il presidente Leone a decidere nel 1972, per la prima volta nella storia della Repubblica, lo scioglimento anticipato delle Camere, pochi mesi dopo la sua elezione. Si era dissolta la coalizione che reggeva il governo Colombo e si pervenne, dopo le elezioni, alla formazione di una maggioranza parlamentare neo-centrista.
Furono anni difficili, oltre che per il ricordato fenomeno terroristico, per la pesante congiuntura economica e sociale che avrebbe arrestato quello che, sin lì, veniva definito il “miracolo economico italiano”.
Nel 1976, Leone dovette procedere, nuovamente, allo scioglimento anticipato del Parlamento, per il venir meno della maggioranza di centrosinistra che aveva sostenuto il quarto Governo Moro.
Aveva fatto irruzione, nel frattempo, prima negli Stati Uniti d’America, il caso Lockheed, la multinazionale accusata di avere pagato tangenti a numerosi governi stranieri. Poi lo scandalo sbarcò in Italia per la individuazione della misteriosa figura di un uomo politico nascosto dietro uno pseudonimo. Venne fatto in maniera ignobile il nome di Giovanni Leone, pur sapendo come fosse del tutto estraneo alla vicenda, ed ebbe inizio una stagione di tentativi di delegittimazione che sarebbe culminata in attacchi serrati e sistemici alla figura del Presidente della Repubblica.
Credo sia opportuno e significativo ricordare che il tema del valore della stampa e dell’informazione in generale aveva fatto parte del magistero presidenziale in modo ripetuto.
Giovanni Leone aveva voluto esser presente al Congresso della Federazione nazionale della Stampa italiana, nell’ottobre 1972, per testimoniare la sua vicinanza e stima nei confronti degli operatori dell’informazione.
Definita la stampa componente essenziale della società democratica, Leone osservava in quella occasione che “la stampa assicura l’espansione della libertà, sollecita il collegamento della coscienza popolare alle istituzioni, rende evidenti – o quando occorre pressanti – le esigenze sociali presso gli organi che devono soddisfarle…rende possibile, insomma, la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato”.
Espresse poi, in quella occasione, parole che sarebbero apparse profetiche: “La stampa è al servizio della verità; ma sappiamo tutti come questa sia inafferrabile. Accontentiamoci allora che la professione giornalistica sia esercitata con l’attenta – persino esasperata – ricerca del riscontro oggettivo; con buona fede, con la consapevolezza dell’influenza che persino la pubblicazione di una semplice notizia di cronaca o di un commento può esercitare sull’opinione pubblica e talora sullo sviluppo della società…”. Per concludere: “credo si possa fare caloroso invito ad avere tutto il riguardo per la dignità della persona umana, che va salvaguardata nella massima misura”.
Difficile trovare parole più misurate e umane per descrivere la responsabilità degli organi di informazione e dei giornalisti, che dovrebbe essere sempre doverosamente rispettata.
Difficile ritrovare una campagna giornalistica, scandalistica e invereconda, come quella diretta contro il Presidente Leone, secondo un modello altre volte registrato.
Il rapimento del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro – ha ricordato il prof. Giovagnoli - vide un Presidente della Repubblica attivo e solerte nella ricerca di percorsi che consentissero la liberazione dell’ostaggio. La decisione dei terroristi delle Brigate Rosse di assassinarlo pose fine ad ogni iniziativa.
Le dimissioni del Presidente Leone avrebbero, di lì a poco, aperto un’altra pagina della storia di quella Repubblica della quale, a buon titolo, figura tra i fondatori e i protagonisti.
Credo che sia giusto rifarsi - per concludere - al suo discorso di insediamento come Presidente della Camera dei Deputati nel 1955, quando succedette alla guida di Montecitorio al neo Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, affermò: “nell’esercizio del mandato affidatomi non obbedirò che alla mia coscienza”.
Nel corso del suo lungo impegno nei tanti ruoli di vertice delle nostre istituzioni è sempre stato questo il criterio delle sue scelte.
E la Repubblica, a venti anni dalla sua morte, lo ricorda con riconoscenza.