INTERVENTO ALL'INCONTRO CON GLI ESPONENTI
DEL MONDO IMPRENDITORIALE REGIONALE
Bologna, Auditorium della Ducati, 16 marzo 2007
Anzitutto desidero salutarvi e ringraziarvi per questo invito e per questa partecipazione.
Vorrei svolgere rapidamente qualche considerazione di carattere generale, pensando che possa interessarvi. Senza, naturalmente, entrare nel merito di questioni che ha trattato assai bene il Ministro Bersani: io non posso e non debbo rubargli il mestiere, e lo lascio, naturalmente, anche nella pienezza delle sue responsabilità, nel bene e nel male. Tocca a voi giudicare.
Voglio dire solo questo: che chi visita la Ducati, come ho fatto questa mattina con l'aiuto del Dottor Minoli, e chi ascolta le vostre analisi, i vostri rendiconti, può correre il rischio di andare via con una carica di eccessivo ottimismo. Tutto sommato, se si pensa alle ragioni di pessimismo, o comunque di grave preoccupazione, che suscitano altre realtà del Paese, mi pare che sia un antidoto molto utile. Ma credo che sia stato bene sottolineare come, nonostante i risultati veramente eccellenti che qui sono stati realizzati, c'è da guardare al futuro sapendo che - come ha sottolineato la Dottoressa Artoni - esso riserva maggiori incertezze di quante non se ne ricavino dal quadro attuale.
Qui ha contato moltissimo, certamente, la collaborazione istituzionale: una osmosi, come si è detto, tra imprese, territorio e comunità locali. Sono peculiarità emiliane, di questa regione Emilia-Romagna, che hanno contribuito moltissimo a risultati che direi piuttosto eccezionali, anche se non unici nel panorama italiano. Non a caso, state scalando sempre posti nelle classifiche.
Naturalmente, collaborazione istituzionale non significa appiattimento né delle imprese sulle istituzioni né viceversa: c'è una dialettica anche nella collaborazione, e ritengo che questa dialettica sia molto importante per animare e portare più avanti, di fronte alle sfide che si presentano, questa stessa collaborazione.
Il Ministro Bersani ha detto che stiamo vivendo un periodo di ripresa. Una ripresa che ci auguriamo non sia solo congiunturale, nel senso effimero del termine: dobbiamo considerarla una occasione e dobbiamo collocarci in un orizzonte più ampio che è europeo e globale.
È stato fatto riferimento in particolare alla Strategia di Lisbona, ricordando come non sia stato possibile conseguire gli obbiettivi che si erano prestabiliti nel 2010 e aggiungendo che comunque ci vuole "più Europa". Badate, questo non è un punto secondario, perché io credo che se non si sono raggiunti quegli obbiettivi, o se si è progredito troppo lentamente verso il raggiungimento del grande traguardo di fare dell'economia europea, entro il 2010, l'economia più competitiva e avanzata del mondo, è stato anche perché non ci sono stati abbastanza poteri per le istituzioni europee. In questo senso, "più Europa" deve significare anche più poteri di realizzazione delle politiche comuni. Non basta fissare degli obbiettivi, se non ci sono istituzioni capaci in particolare di contrastare e superare la dispersione delle politiche economiche nazionali. Non si fa politica europea e non si avanza come Europa nel suo complesso, se le istituzioni europee non hanno anche i mezzi istituzionali e le risorse finanziarie per guidare questo sforzo. Perciò io considero molto importante che si cerchi, proprio in questo semestre di presidenza tedesca - ed è veramente una coincidenza molto fortunata che sia un paese come la Germania a guidare questo momento di transizione così cruciale - di dare attuazione al Trattato costituzionale. Se ne potrà cambiare il nome, per quanto quello, a mio avviso, sia il nome giusto, ma tutte le innovazioni contenute in quel trattato sono tutt'al più insufficienti - non sono sicuramente eccessive - e debbono essere assolutamente salvaguardate. Credo che quelle innovazioni potranno contribuire molto anche a portare più avanti la Strategia di Lisbona e, più in generale, ad affermare un ruolo dell'Europa, dell'Europa unita, nel quadro dell'economia mondiale, nel processo di globalizzazione e anche nella sfera delle relazioni internazionali.
L'economia di Lisbona, l'economia della conoscenza: qui si sono richiamati accordi importanti, intervenuti anche per iniziativa della Regione, tra università e imprese per la ricerca di oggi. Vengo dall'Università di Bologna, e lì ho sentito anche una reazione - che mi è sembrata giusta - ad una rappresentazione del mondo delle università che spesso diventa addirittura denigratoria. Il mondo delle università italiane è fatto di tante realtà diverse; ed è fatto anche, sicuramente, di distorsioni e sprechi. Però, guai a confondere queste distorsioni e questi sprechi con la realtà della ricerca e dell'Università nel suo complesso e a diminuire l'impegno verso il sistema universitario, verso il sistema della formazione e della ricerca pubblica. E guai a diminuire o a mettere in ombra l'impegno che si richiede ai privati, alle imprese per conseguire uno sviluppo oramai indispensabile della ricerca e dell'innovazione nel nostro Paese.
Il Ministro Bersani ha detto che non possiamo rinunciare all'industria. Può sembrare una ovvietà. Però, in effetti, in anni più o meno recenti abbiamo anche sentito circolare l'idea che, tutto sommato, sarebbe possibile garantire quello di cui l'Italia ha bisogno, ed evitarne il declino, senza troppo accanirsi sulla presenza, la persistenza e la crescita dell'industria. Credo che sia stato veramente un luogo comune, per non dire un'autentica deviazione; e da una realtà come quella emiliana c'è modo di trarre conforto nella convinzione che sia non solo necessario ma possibile tener fermo quell'elemento decisivo della crescita, del progresso e anche della capacità di presenza internazionale del Paese che viene dall'industria e in particolar modo dall'aindustria manifatturiera. Insomma, ci si sta riuscendo, qui ci si è riusciti - con tutte le riserve possibili per il futuro - soprattutto grazie al tessuto delle piccole e medie imprese: piccole che si sono irrobustite, medie che si sono internazionalizzate. Anche sapendo quale sia stato, tutto sommato, il colpo gravido di conseguenze subìto dalla grande industria in Italia, con l'indebolimento della nostra presenza in alcuni settori fondamentali. In ogni caso,pur in presenza di un restringimento dell'area dei grandi gruppi industriali, il fatto che le medie imprese siano state capaci di ristrutturarsi come lo sono state in Emilia e altrove, e di affrontare le sfide del mercato globale, conforta la convinzione che sia non solo indispensabile ma pienamente possibile mantenere al centro della politica di sviluppo del Paese l'industria manifatturiera.
Naturalmente, per affrontare queste sfide conta molto il clima complessivo del Paese. E in questo quadro rientra anche il concorso delle responsabilità della politica. Ho appena letto questa mattina qualche sintesi del discorso tenuto ieri a Milano dal Governatore della Banca d'Italia. E mi pare che egli abbia proprio messo l'accento su questo: essenziale è che ci sia più coesione, più sinergia attorno agli indirizzi e alle decisioni di politica economica, se vogliamo che questa politica economica abbia successo anche al di là del succedersi dei governi. Il Governatore era a Milano per ricordare Paolo Baffi, Governatore della Banca d'Italia nella seconda metà degli anni '70. Per aver avuto con Baffi un rapporto straordinario di dialogo e di reciproca comprensione, posso dire che il Governatore Draghi è stato molto schietto e puntuale nel ricordare, per esempio, le ansietà del Governatore Baffi nel 1977-'78 (soprattutto nei primi mesi del '78) dinanzi alla scelta dell'ingresso dell'Italia nell'allora Sistema Monetario Europeo. Da che cosa era motivata quella preoccupazione, quella ansietà, quella perplessità del Governatore, che io ben ricordo? Dalla consapevolezza di quanto fosse durissimo il condizionamento del terrorismo e anche di quanto fossero pesanti le imprevedibilità della politica. In questo senso, Draghi ha detto ieri che erano anni molto più pesanti di quelli che, nonostante tutto, stiamo vivendo oggi.
Comunque, le imprevedibilità della politica ci sono ancora: c'è una crisi di fiducia nella politica. E non solo in Italia. Guardiamo anche al dibattito che si sta svolgendo in Francia in vista delle elezioni presidenziali e, per esempio, alla clamorosa conclusione delle indagini d'opinione pubblicata avant'ieri: alla domanda se in Francia, per i prossimi anni, si abbia più fiducia nella prospettiva di un governo di destra o di un governo di sinistra, il 61% degli interpellati - teoricamente, se si vuole, dei cittadini - ha risposto "né nell'uno né nell'altro". Questo impressiona, e ci fa capire che c'è un disagio sociale molto diffuso, nel Paese a noi vicino, come in Italia; che forse c'è lì, ancor più che da noi, un clima complessivo di grande timore di fronte alle sfide, alle minacce e alle incognite della globalizzazione e a tutto quello che ne consegue; che c'è, quindi, anche una tendenza a ripiegarsi sull'idoleggiamento di acquisizioni del passato che, in realtà, non possano essere anacronisticamente difese, non possono essere più garantite: c'è una riluttanza al cambiamento. Anche così ci si spiega questo momento di grande incertezza di fronte alla politica, e anche di distacco dalla politica. Ma se non costruiamo un elemento di maggior fiducia complessiva nel sistema democratico, nel sistema istituzionale e, in questo senso, un elemento molto più positivo nell'atmosfera del Paese, è difficile riuscire a portare avanti le politiche che sono necessarie.
Questo lo dico guardando alla situazione italiana attuale. È una situazione difficile. Lo sapete: ho dovuto ritardare quest'incontro con voi perché la volta scorsa sono stato chiamato a Roma improvvisamente da un evento che era possibile, anche se non era tecnicamente prevedibile. Abbiamo chiuso una fase molto difficile, ma non credo che siamo al riparo dalle fragilità dell'attuale situazione politica, soprattutto non siamo al riparo dai danni che produce un clima di così esasperata conflittualità politica. Un clima che non comincia ora, un clima che non è cominciato dieci mesi fa, sia chiaro: è un clima che ci ha accompagnato negli ultimi dodici-quindici anni.
Credo che sia indispensabile compiere ogni sforzo per uscirne. La democrazia dell'alternanza, che bene o male ha visto la luce quindici anni fa con la riforma elettorale del 1993 e con la crisi del vecchio sistema dei partiti, la competizione diretta, anzi serrata, tra gli opposti schieramenti non può però significare guerra totale, guerriglia quotidiana, contrapposizione cieca, ma costume di ascolto reciproco e sforzo per individuare alcuni terreni su cui far convergere tutte le energie del Paese e anche tutte le forze politiche rappresentative.
In una qualsiasi democrazia europea o nordamericana che funzioni, non si fanno sconti, gli uni agli altri: vi sono schieramenti che competono per la guida del Paese. Ma si riesce anche ad individuare dei terreni e degli obbiettivi comuni che vedano un impegno convergente di entrambi gli schieramenti.
Questo comporta, penso, una soluzione del problema della revisione della legge elettorale, e comporta anche la soluzione di alcuni problemi di modifiche costituzionali. Bisogna essere molto prudenti nelle previsioni, e forse anche misurati negli obbiettivi, ma bisogna che anche dal mondo dell'impresa venga un messaggio. Non è soltanto il capriccio di qualche politico o di un Presidente della Repubblica chiedere che ci siano questi cambiamenti: è interesse generale del Paese, dell'economia e della società italiana fare in modo che si apra nel nostro Paese una stagione di più costruttivo e fecondo confronto politico. In questo senso andrà il mio impegno.