La mia visita in Turchia coincide con un momento importante nella storia del processo d'integrazione europeo. Sta per entrare finalmente in vigore - a conclusione di un percorso lungo e tormentato - il nuovo Trattato sottoscritto a Lisbona nel dicembre 2007 dagli Stati membri dell'Unione europea. Si aprono nuove possibilità per una Europa che voglia rafforzare la sua unità e pesare sulla scena mondiale. Nei giorni scorsi, il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino ci ha sollecitato a riflettere su come il mondo sia cambiato allora ma anche dopo di allora. L'Unione Europea non potrà sfuggire a scelte cruciali che le vengono imposte da così profondi cambiamenti, venuti ormai in piena luce per effetto della crisi finanziaria ed economica esplosa nel 2008 come crisi globale.
E' dunque in questo scenario che io vorrei collocare - dinanzi a voi - i problemi del rapporto tra Turchia e Europa. Lo farò da italiano e da convinto assertore della causa dell'unità e dell'integrazione europea. In quanto italiano, vorrei ricordare come l'adesione del mio paese, nei primi anni '50 dello scorso secolo, al progetto europeo e, in concreto, alla fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio e poi della Comunità Economica Europea, costituì una scelta politica, di valore strategico, relativa innanzitutto alla collocazione internazionale dell'Italia ma scaturì da una visione storica, di grande significato ideale, che aveva avuto una sua incubazione culturale e i suoi profeti.
Quella scelta politica fu certamente una scelta di campo nel mondo già immerso nella guerra fredda e diviso in due blocchi contrapposti ; una scelta di campo dalla parte degli Stati Uniti d'America, che non a caso si accompagnò all'adesione dell'Italia all'Alleanza Atlantica. Essa perciò divise allora l'opinione pubblica e il Parlamento nel mio paese. Ma il nocciolo dell'idea di Europa, e del disegno dell'unità europea, si sarebbe nel tempo salvato dalle contrapposizioni della guerra fredda e già a partire dalla fine degli anni '60 avrebbe conquistato un sempre più ampio consenso.
Nella riflessione culturale e nell'impegno delle più lungimiranti personalità politiche, l'Italia aveva espresso fin dagli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale una forte ispirazione europeistica. Un grande economista e uomo di pensiero liberale e antifascista, come Luigi Einaudi, divenuto poi, nel 1948, Presidente della Repubblica, aveva perorato la causa degli Stati Uniti d'Europa, che fu ripresa e sviluppata dai profeti italiani del federalismo europeo, in primo luogo da Altiero Spinelli.
Lo storico italiano Federico Chabod aveva, all'indomani della caduta del fascismo, esplorato le origini e i caratteri dell'idea d'Europa, attribuendo a Niccolò Machiavelli, grande italiano del XVI secolo, "la prima formulazione dell'Europa come di una comunità che ha caratteri specifici anche fuori dell'ambito geografico, e caratteri puramente terreni, laici, non religiosi". Ciò che caratterizzava quell'idea d'Europa era, secondo Chabod, il senso della libertà, in opposizione al "dispotismo asiatico" ; e con esso un insieme di "principi di diritto comuni".
Negli ultimi anni, o decenni, si è continuato - come si sa - a lavorare e a discutere molto sul tema dell'identità europea. Ma io ritengo che resti ancor oggi di straordinaria profondità e maestria l'analisi svolta, nel 1944-45, da un grande storico francese, Lucien Febvre. Ne voglio citare alcuni passaggi, che appaiono di singolare attualità anche in rapporto alle discussioni di oggi sull'Europa e sull'adesione della Turchia all'Unione Europea. Il libro di Febvre (un suo corso di lezioni su "L'Europa. Genesi di una civiltà") si apre con questa vigorosa pagina :
"Chiamo Europa non un continente, non una divisione geografica del globo, non un dipartimento razziale dell'umanità bianca, giacché nessun antropologo, nessun etnologo (...) si è mai sognato di parlare di una razza europea, di sostituire alla più prodigiosa delle diversità etniche una unità immaginaria e una purezza razziale meramente convenzionale (o propagandistica). (...) Chiamo Europa, semplicemente, una unità storica, una incontestabile, innegabile unità storica, una unità che si è costituita in una data definita, una unità recente, una unità storica, comparsa nella storia sappiamo esattamente quando, giacché l'Europa in questo senso, così come noi la definiamo, come la studiamo, è una creazione del Medio Evo ; una unità storica che, come tutte le altre unità storiche, è fatta di diversità, di pezzi, di cocci strappati da unità storiche anteriori, a loro volta fatte di pezzi, di cocci, di frammenti di unità precedenti".
Febvre insiste, nel corso del suo lungo sforzo di ricostruzione e interpretazione storica, su alcuni di questi elementi, che oggi mi interessa richiamare : "il capitolo delle diversità", che "nella storia d'Europa resta importante quanto quello delle somiglianze" ; la non identità tra mondo greco e mondo europeo, anche se "la Grecia ha inventato l'Europa" ; la distinzione tra l'Impero Romano e l'Europa, che si delinea solo "quando quell'Impero crolla" ; il significato dell'Europa carolingia, "che non è la nostra Europa", quella cui noi ci riferiamo, ma ne è stato "il cuore e il lievito".
Naturalmente, questi e molti altri aspetti di ogni ricerca e riflessione storica sul farsi dell'Europa, sono sempre oggetto di controversie : ma molto importante è a mio avviso il richiamo dello storico francese a una "nozione reale e vivente" di Europa come "solidarietà tra nazioni portatrici di un ideale, o quanto meno di una civiltà comune", scaturita dalla "partecipazione di popolazioni assai diverse, le une mediterranee, le altre oceaniche o nordiche, o orientali, che tutte hanno conosciuto destini diversi e anche molto diversi, ma che alla civiltà comune tutte hanno contribuito". Di qui anche la polemica di Febvre - che relativizza o contesta la stessa nozione di continente - col "falso confine dei monti Urali", per poi concludersi così : "I confini dell'Europa sono i confini della civiltà europea. Ma i confini della civiltà europea non sono fissi. Sono confini mobili, che non cessano di spostarsi, e in via generale di spostarsi verso Est".
Ecco qualcosa che - a distanza di oltre sessant'anni da quando vennero scritte quelle parole - non si dovrebbe dimenticare oggi che si discute se tali confini non debbano essere fissati, e anzi darsi per ormai fissati al 2004, con l'ultimo grande allargamento dell'Unione. E aggiungo che parlandosi di civiltà europea mi pare non infondato né arbitrario vederne tradotti i capisaldi nei principi e valori riconosciuti via via dai Trattati della Comunità e dell'Unione.
D'altra parte, chiunque ancor oggi si riferisca polemicamente alla storia plurisecolare di cui è figlia la Turchia di oggi - e c'è chi sembra prigioniero delle eredità di un lontano passato -, non dovrebbe ignorare il lungo cammino che vide già nel secolo XIX l'Impero ottomano avvicinarsi all'Europa, tendere ad "europeizzarsi". Non si dovrebbe, concretamente, ignorare un tormentato percorso di modernizzazione e di almeno parziali o incompiute riforme, che culminò - dopo la caduta dell'Impero ottomano - nelle scelte della neonata Repubblica turca, sotto la guida di Kemal Ataturk : scelte di trasformazione della società turca in senso europeo, a partire dalla Costituzione del 1924.
Né si può dimenticare il valore che ebbe lo schierarsi della Turchia con l'alleanza occidentale e antifascista nella seconda guerra mondiale ; la sua adesione alla NATO nel 1952, e ancor prima, nel 1949, l'ammissione al Consiglio d'Europa. Quindi, nel 1959, la Turchia presentò la domanda di adesione alla Comunità economica europea, con cui sottoscrisse nel 1963 - chiuse la parentesi e la ferita provocate dal colpo di Stato militare di alcuni anni prima - un accordo di associazione.
Non è mia intenzione semplificare i problemi persistenti e ricorrenti che riguardano le prospettive del rapporto tra la Turchia e l'Europa comunitaria quale è venuta via via sviluppandosi e allargandosi. E infatti toccherò tra breve tali problemi, nelle loro specifiche implicazioni politiche. Ma è bene sgomberare il terreno da pregiudiziali storiche e di principio che si sono, nel periodo più recente, in vario modo ripresentate.
Vale la pena di citare le formulazioni che il Trattato di Lisbona - di cui si è finalmente conclusa la ratifica - ha sancito, in coerenza con la lunga evoluzione precedente dell'Europa comunitaria : "Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all'art.2 e si impegni a promuoverli" - cioè, come prima dicevo, quei valori con cui è stata identificata, dalla Comunità e infine dall'Unione, la civiltà europea - "può diventare membro dell'Unione". E il Consiglio Europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha conclusivamente indicato la Turchia come "Stato candidato destinato ad aderire all'Unione in base agli stessi criteri applicati agli altri Stati candidati".
E' dunque questo il solo terreno su cui è legittimo concentrare ora l'attenzione. Altri dieci anni sono trascorsi. Com'è noto, nel dicembre 2004, il Consiglio europeo - dopo aver preso atto del "decisivo progresso compiuto dalla Turchia nel suo processo di riforma di ampio respiro" e confidando "sul proseguimento dei suoi sforzi" - è giunto alla conclusione che la Turchia soddisfacesse i criteri politici di Copenhagen perché si aprissero (il 3 ottobre 2005) i negoziati di accesso all'Unione. Si noti che il Consiglio ha sancito, a chiare lettere, che "l'obbiettivo condiviso dei negoziati è l'accesso della Turchia all'Unione". Ebbene, recedere ora da quella formale decisione minerebbe - credo di poter dirlo apertamente e responsabilmente - la credibilità dell'Unione, e non solo agli occhi della Turchia e del suo popolo.
E' vero che in quelle stesse conclusioni del Consiglio del dicembre 2004 si legge anche che si tratta di un processo "open-ended", "il cui sbocco non può essere garantito in anticipo". Ma non si può nemmeno escludere in anticipo che lo sbocco sia quello dell'ammissione della Turchia come membro a pieno titolo, e prospettarle un diverso, meno impegnativo "status" mentre i negoziati sono aperti e ben lontani dal concludersi. D'altronde, recentissimamente, il 19 ottobre scorso, la Commissione europea ha presentato un Progress Report, ricco di luci e di ombre sull'evolversi della situazione turca in rapporto a tutte le priorità, immediate e di medio termine, che sono oggetto dei negoziati. Si tratta di un assai lungo elenco di capitoli ; ed è giusto che essi siano verificati con serietà e con rigore.
Alcuni dei problemi di fondo, che costituiscono comprensibilmente motivo di preoccupazione per i rappresentanti degli Stati membri e dell'Unione, con naturali ripercussioni nelle opinioni pubbliche, sono pienamente rispecchiati in altrettante priorità, e nei relativi capitoli, che sono al centro dei negoziati. Per citarne solo alcune, ricorderò le priorità concernenti il controllo civile sulle forze militari, l'indipendenza della magistratura, i diritti umani e la protezione delle minoranze, la libertà di religione, con particolare riferimento alla creazione di un clima di tolleranza in funzione del rispetto effettivo di tale libertà, alla garanzia di esercizio dei diritti delle comunità religiose non musulmane e di possibilità di educazione religiosa per le minoranze non musulmane.
A proposito di queste e altre questioni, è essenziale guardare ai fatti, valutare gli sviluppi concreti e conseguenti del processo di riforma in Turchia. Bisogna essere non prevenuti ma obbiettivi. E' interessante rilevare come anche la Commissione indipendente guidata dal Presidente Ahtisaari, nettamente favorevole all'ammissione della Turchia, si sia espressa con severità, nel suo rapporto del settembre scorso, sul rallentamento del processo di riforma in Turchia e abbia sollecitato "un nuovo impegno turco in numerosi e importanti progetti per allineare il paese alle normative europee". Essa ha anche affrontato energicamente il critico stato dei rapporti tra le comunità turca e greca di Cipro e l'assoluta necessità di uno sviluppo delle trattative che conduca a una soluzione concordata. In tal senso deve auspicarsi sia un forte e intenso impegno dell'Unione Europea, sia una decisa azione d'incoraggiamento e persuasione da parte della Turchia, compreso un gesto coraggioso come la ratifica del Protocollo di Ankara.
Meritano grande attenzione anche gli svolgimenti della politica estera e dell'iniziativa diplomatica della Turchia ; non è sfuggito a nessuno, in particolare, l'importanza del recente incontro a Zurigo, e della firma di impegnativi protocolli d'intesa, tra i ministri degli esteri turco ed armeno ; ma in generale il ruolo della Turchia nella vasta e cruciale regione in cui è collocata geograficamente e storicamente rappresenta uno dei nodi fondamentali dell'interesse reciproco allo sviluppo della collaborazione - fino all'integrazione - tra Unione Europea e Turchia. Vi si collega strettamente anche il nodo del rapporto con l'Islam, con il mondo musulmano. Un nodo ormai interno a numerosi paesi europei, compresa l'Italia, nella quale risiedono, da immigrati, oltre un milione di persone provenienti da paesi di religione prevalentemente musulmana. L'esperienza storica della Turchia e il processo di riforma in cui essa è impegnata costituiscono punti di riferimento importanti per una riflessione comune, in Europa, sul dialogo interreligioso e interculturale da sviluppare con l'Islam nel quadro di Stati che vogliono restare laici, liberali e tolleranti, non confessionali.
Dell'ingresso della Turchia nell'Unione si deve ragionare ponendosi l'interrogativo cui l'Europa non può più sfuggire. Il mondo conobbe una svolta vent'anni fa, con la caduta del Muro di Berlino, ma è via via cambiato come allora non era possibile prevedere. E' diventato sempre di più interdipendente e davvero globale : la controprova incontestabile l'ha data precisamente la crisi finanziaria ed economica dilagata nell'ultimo biennio. Ed è nello stesso tempo maturata l'esigenza di un governo largamente condiviso del processo di globalizzazione, a fini di più equo e diffuso accesso ai suoi frutti e alle sue opportunità, di crescita sostenibile, di stabilizzazione e pacificazione in vaste regioni nelle quali oggi si concentrano tensioni e minacce (come quella del terrorismo di matrice fondamentalista islamica) da disinnescare nell'interesse generale.
In questo mondo globale, così diverso da quello in cui nacque a metà Novecento il disegno di unità europea, come può quel che abbiamo costruito, l'Unione a 27, con tutto il ricco patrimonio del suo acquis, porsi all'altezza delle sue responsabilità e potenzialità? Ebbene una delle condizioni per riuscirvi sta di certo nella sua capacità di aprirsi più decisamente alle nuove realtà del mondo d'oggi, di dare ben altra consistenza, organicità e credibilità al suo muoversi e operare nel sistema delle relazioni internazionali. E ciò significa da un lato, parlare con una voce sola in tutte le sedi istituzionali in cui ci si confronta e si decide da protagonisti della politica e dello sviluppo mondiale. Dall'altro lato, tenere saldamente le fila di tutte le reti e le forme che le relazioni esterne dell'Unione sono venute assumendo : accordi di associazione, partenariati, vertici periodici, che già abbracciano attori di tutti continenti. Dare in questo quadro un rilievo prioritario all'area mediterranea e, nell'accezione più ampia (comprendente l'Asia meridionale), mediorientale, perché attraverso le saldature e le sinergie che lì possono realizzarsi l'Europa ha l'opportunità di collocarsi e di pesare nel nuovo grande flusso di risorse e di traffici, nel nuovo grande moto di sviluppo che parte dalle maggiori realtà asiatiche.
In questa prospettiva non è difficile cogliere l'importanza che avrebbe l'integrazione della Turchia nell'Unione Europea, sia per il dinamismo della sua economia - e in particolare della sua collocazione nel quadro dei rifornimenti e dei futuri collegamenti in campo energetico - sia, sul piano politico, per la sua capacità di contribuire a un'evoluzione in senso moderato del mondo musulmano e di fare da ponte tra l'Europa e l'Islam. Se a tali considerazioni si aggiunge quella del peso demografico, geo-politico e militare della Turchia, appare chiaro l'apporto che essa può dare, da Stato membro dell'Unione, all'affermazione di una "Europa-potenza".
Quest'ultimo è un concetto che venne elaborato negli anni '90 del secolo scorso da una personalità francese di statura europea, Giscard d'Estaing, il quale, vedendo avvicinarsi l'allargamento dell'Unione - com'era storicamente inevitabile - ai paesi dell'Europa centrale e orientale prima imprigionati nel blocco sovietico, scrisse :
"L'Europa-spazio [la "Grande Europa" a 27] non può essere il quadro appropriato per perseguire, ora e nel futuro, il progetto di integrazione europea" secondo il disegno originario, "che mirava a organizzare una «Europa-potenza», dotata di istituzioni forti e rappresentative, capaci di decidere e di agire, che consentisse all'Europa di diventare un partner e un interlocutore per le grandi potenze che modelleranno il mondo del XXI secolo".
Senza negare l'importanza dell' "Europa-spazio" e favorendone il consolidamento con compiti realisticamente delimitati, al suo interno deve crescere - suggerì Giscard d'Estaing - una "Europa-potenza" sempre più fortemente integrata.
Questo approccio si è, fino a tempi recenti, rispecchiato nella distinzione, cara a Jacques Delors, tra gli obbiettivi della "Grande Europa" e quelli della parte più aperta e disponibile a una forte integrazione. E il più rilevante, concreto esempio della possibilità di procedere in tal senso lo si è dato con l'unificazione monetaria e con la creazione dell'Eurogruppo. A tale esempio si sono ispirate le norme - anche e ancor più quelle del Trattato di Lisbona - volte a suscitare delle "cooperazioni rafforzate", cui partecipino almeno 9 Stati membri, nonché forme di "cooperazione strutturata" nel campo della difesa tra i paesi di più alto potenziale militare.
Anche in queste previsioni può individuarsi la risposta al quesito se si potesse e si possa allargare l'Europa senza indebolirla.
Sappiamo che già l'allargamento dell'Unione da 15 a 27 Stati membri è stato considerato da alcuni come una "fuga in avanti" e - a causa della paralisi, negli ultimi 10 anni, dell'evoluzione istituzionale dell'Unione - come fonte di ingovernabilità. Avrebbe dovuto già allora valere, e suggerire risposte adeguate, la preoccupazione che con l'allargamento si andasse verso la "diluizione" del processo di integrazione europea. Questa è la preoccupazione che ora viene opposta da qualche parte all'adesione della Turchia. Ma è l'Unione che deve mostrarsi netta e conseguente sul punto cruciale, se andare o no più avanti sulla via di una integrazione fondata sull'esercizio comune di una sovranità condivisa in campi fondamentali. Andare avanti per le strade che risulteranno percorribili sulla base della volontà e disponibilità di una parte dei suoi membri. Ed è questo il punto essenziale su cui anche la Turchia è chiamata a pronunciarsi, mentre prosegue il negoziato su tutti i capitoli programmati. D'altronde la Turchia è ben consapevole dei caratteri peculiari, e altamente impegnativi, del disegno europeo quale fu concepito fin dal 1950, avendo essa partecipato alla Convenzione del 2002-2003 sul futuro dell'Europa che elaborò il progetto di Trattato costituzionale dell'Unione.
L'Europa è rimasta in questi mesi assurdamente sospesa all'incerto consenso di tre, due, uno dei suoi Stati membri per la ratifica ed entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Ora, di fronte a decisioni fondamentali che l'attendono, essa non può rimanere sospesa al conseguimento dell'unanimità, rinunciando agli strumenti che l'esperienza della costruzione comunitaria e le norme del nuovo Trattato le offrono per andare avanti alla velocità e sui contenuti che una parte importante dei suoi Stati membri sia pronta a definire.
L'Europa-potenza, l'Europa attore globale, resterà un'espressione retorica, una semplice enunciazione velleitaria, se l'Unione resterà prigioniera delle nostalgiche, impotenti pretese degli Stati nazionali, dei loro governi, delle loro classi dirigenti, delle loro forze politiche, nel tentativo di coltivare ciascuno sue antiche prerogative e irriducibili diversità, di conservare e far pesare ostruzionismi e poteri di veto all'interno dell'Unione.
Superare queste barriere e questi freni, compiere un balzo in avanti nel processo di integrazione, è diventato urgente se non ci si vuole condannare al declino, l'Europa e i suoi Stati, anche i più grandi e robusti, perché nessuno di essi può ormai avere da solo un ruolo effettivo in un mondo così fortemente segnato dalla crescita impetuosa di nuove potenze emergenti.
Ci auguriamo che da parte turca si possa condividere questa visione, anche nella drammaticità del richiamo ad avere fiducia nelle potenzialità dell'Europa e a costruirne insieme l'indispensabile capacità di presenza e di azione dinanzi alle sfide del futuro, senza farci condizionare dalle più negative eredità del passato e da nuove insidie di divisione e contrapposizione.