Napoli 05/01/2010

Intervento del Presidente Napolitano alla cerimonia per il 50° anniversario della scomparsa di De Nicola

Signor Presidente della Camera dei Deputati,
signor Presidente della Corte Costituzionale,
signor Presidente dell'Ordine degli Avvocati di Napoli,
Autorità,
signore e signori, un cordiale saluto a voi tutti.

Non potevo mancare oggi, così come non mancai al ricordo, sempre qui a Castelcapuano, di Giovanni Leone, avvocato, giurista e Presidente.
Ho seguito con vivo interesse gli interventi dell'avv. Caia e dell'avv. Siniscalchi, e ho particolarmente apprezzato il discorso del Presidente Fini, il contributo che con la sua rievocazione e con le sue riflessioni istituzionali egli ha offerto a questa alta e significativa cerimonia.

Se prendo ora brevemente la parola è innanzitutto per l'impulso che mi viene da incancellabili memorie famigliari e personali. Memorie che mi legano al mondo e alla generazione - di cui Enrico De Nicola fu figura eminente e cui appartenne anche mio padre - di maestri della professione forense che nella prima metà del secolo scorso diedero il meglio di sé nelle Aule di questo Palazzo. E memorie degli anni della mia partecipazione giovanile alle vicende di Napoli e della sua rappresentanza parlamentare, che avevano in Enrico De Nicola il loro più nobile punto di riferimento (e in quel mio apprendistato io sapevo di essere seguito dal suo sguardo paterno).

Ma mi spinge non meno a prendere la parola - insieme con il dovere dell'omaggio al mio primo predecessore come Presidente della Repubblica - il sentimento, oggi in me più vivo che mai, del debito di riconoscenza che l'Italia, la Repubblica, e in particolare chi esercita la funzione di Capo dello Stato hanno nei suoi confronti.

Riconoscenza in primo luogo per il ruolo da lui svolto in momenti decisivi per le sorti del nostro paese e per la sua evoluzione democratica. Così nel momento che si colloca tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944. E' il momento dell'invenzione magistrale, da parte di De Nicola, di quella che si sarebbe rivelata la sola, valida soluzione possibile dell'impasse istituzionale che bloccava ogni prospettiva di normalizzazione politica democratica in questa parte del paese già liberata dalle forze alleate.

Nell'Italia "tagliata in due", in una Napoli stravolta dalle distruzioni della guerra e dai drammi della sopravvivenza quotidiana, Benedetto Croce - sgomento nel vedere a rischio quanto le generazioni italiane avevano costruito in un secolo - si rivolge a Enrico De Nicola per chiedergli consiglio e sollecitarne l'impegno. Si rivolge a lui - è Croce stesso a sottolinearlo - in quanto "ultimo Presidente liberamente eletto della Camera italiana". E ottiene dal suo "ingegno raziocinativo e sottile", come gli piaceva definirlo, l'aiuto prezioso di un'audace ipotesi giuridico-istituzionale, quella di una luogotenenza del Principe Umberto che duri fino a quando il popolo possa essere consultato e dia il suo responso sulla forma di Stato da adottare. Il presupposto è che il Re debba ritirarsi per aver collaborato col regime fascista fino alla disfatta e alla rovina del paese; la proposta della luogotenenza è accolta da Vittorio Emanuele, che De Nicola rivede dopo vent'anni, grazie all'opera di persuasione e alla fermezza del grande giurista e politico napoletano.

Si aprì così la strada alla formazione di un governo rappresentativo, con la partecipazione delle forze politiche antifasciste, che era condizione per un essenziale recupero di dignità nazionale ed autonomia d'azione, e per il riconoscimento dello status di cobelligerante grazie al quale l'Italia potesse concorrere alla guerra e alla vittoria contro il nazismo.

Senza l'apporto risolutivo di Enrico De Nicola è difficile immaginare quale avrebbe potuto essere allora la sorte del paese, sconfitto e diviso.

L'altro periodo cruciale che vide Enrico De Nicola acquisire un merito storico, anch'esso non sufficientemente ricordato e riconosciuto, è quello nel quale fu per diciotto mesi Capo Provvisorio dello Stato, dal giugno 1946 alla fine del 1947. Si trattò di far vivere la Repubblica appena proclamata per volontà del popolo, ma della quale era ancora interamente da definire il profilo e l'assetto. Il vecchio Statuto Albertino non poteva adattarsi al nuovo Stato in via di formazione; la Costituzione, con tutte le sue regole, era da scrivere partendo da zero, e il compito spettava a un'Assemblea che avrebbe richiesto un tempo più lungo del previsto per portare a termine la sua difficile missione. Garante di questa inedita e ardua fase dell'evoluzione istituzionale e della rinascita nazionale del nostro paese fu Enrico De Nicola, che diede prova di tutta la sua sapienza giuridica e saggezza politica nel gestire - inventando prassi ed equilibri repubblicani in attesa del nuovo quadro normativo - passaggi delicatissimi, comprese più crisi di governo, una delle quali, nel maggio 1947, sancì una brusca rottura e svolta nei rapporti politici. Egli riuscì a delineare prerogative e rapporti istituzionali che prefigurassero l'impianto della Costituzione, e ad assicurare una transizione condivisa, superando momenti di tensione che non mancarono anche con l'Esecutivo e per esso col Presidente del Consiglio, un forte Presidente del Consiglio come Alcide De Gasperi.

La plebiscitaria rielezione a Capo provvisorio dello Stato, che seguì alle dimissioni date per estremo scrupolo di correttezza dinanzi al prolungarsi dei lavori dell'Assemblea Costituente, consentì a Enrico De Nicola di concorrere a quel clima di unione nazionale che egli sentiva di dover preservare a ogni costo - anche dopo la svolta politica del maggio - perché giungesse a positiva conclusione il supremo mandato dell'elaborazione della Carta costituzionale. E fu in quel segno che si svolse anche la sua nuova funzione, per breve tempo, dopo il 1° gennaio 1948, di Presidente della Repubblica.

Egli fu dunque, in sostanza, l'uomo che presiedette a una duplice ardua transizione: quella dalla Monarchia alla Repubblica e quella dalla nascita della Repubblica alla sua costituzionalizzazione, guadagnandosi così un posto, nella storia dell'Italia moderna, che resta ancora da valorizzare pienamente.

E fu colui che gettò le prime basi dell'esercizio della funzione presidenziale, che avrebbe poi trovato un compiuto assestamento nel settennato di Luigi Einaudi. Posso ben dire che ancora oggi ci si muove lungo la rotta aperta dal mio primo predecessore.

Ma voglio soprattutto dire qualche parola sull'esempio che nello svolgimento del mio mandato di Presidente ho tratto, e più che mai traggo, dal magistero di Enrico De Nicola. In primo luogo, il supremo, tenace attaccamento alla necessità di un clima di unità nazionale: se egli, nel messaggio del 15 luglio 1946, parlò di "difficoltà gigantesche" da superare, dell' "opera immensa di ricostruzione politica e sociale" da portare avanti, sostenendo che di fronte a ciò la sola forza di cui allora disponesse l'Italia fosse "la nostra infrangibile unione", oggi - in condizioni per nostra buona sorte così profondamente mutate - abbiamo ancora molto da imparare e da trarre da quella lezione. Una lunga strada è stata certo percorsa nello svolgimento, pur tra forti difficoltà ed innegabili anomalie, della nostra esperienza democratica, culminata nel passaggio a una democrazia dell'alternanza. Ma la libera dialettica di posizioni e di ruoli tra maggioranza e opposizione non esclude che si riproponga - in momenti di serie prove per il paese - l'esigenza di non smarrire il senso del comune interesse nazionale, come ha ben sottolineato il Presidente Fini.

In secondo luogo, molto io stesso cerco sempre di imparare da quel che gli fu contestato come incorreggibile "formalismo" e che in realtà era correttezza e rigore nell'esercizio, da parte di ogni soggetto istituzionale, del proprio ruolo e dei propri poteri, rispettandone sempre i limiti invalicabili. E' qualcosa che anche negli anni di De Nicola Capo dello Stato, provocava insofferenza in altri soggetti istituzionali: ma egli ci ha lasciato a questo proposito una lezione di serena fermezza, e di ciò gli siamo egualmente grati.