Innanzitutto vorrei ringraziarvi tutti per essere intervenuti; in modo particolare desidero ringraziare coloro che hanno così efficacemente tratteggiato il quadro della realtà veronese. Sono molto lieto di trovarmi in compagnia del neo Presidente della Regione Veneto e del Sindaco di Verona. Sono qui innanzitutto per cercare di capire meglio e di conoscere un po' di più da vicino una realtà come la vostra. Forse troppo spesso vi è l'abitudine di far calare dall'alto discorsi di carattere politico generale, i quali possono trovare un fondamento soltanto se si parte da una conoscenza realistica delle situazioni e dei problemi che sono di fronte alle rappresentanze economico-sociali e, naturalmente, a quelle istituzionali.
Se questo è il secondo giorno della esperienza in Regione del Presidente Zaia, mi pare che non sia certamente il primo in cui egli si confronta con i problemi di Verona e del Veneto. In generale, non è la prima volta nemmeno per me, poiché sono venuto in diverse occasioni in altre province ed in altri capoluoghi del Veneto, e credo di avere seguito a sufficienza quello che forse ha rappresentato in epoca recente il più grande elemento di crescita e di rinnovamento della società italiana, vale a dire la trasformazione del Nord-Est. Ho potuto farlo anche attraverso la meritoria attività della "Fondazione Nord-Est", che fornisce materiale di documentazione e di riflessione davvero eccellente.
Ritengo che si possa poi senz'altro affermare che all'interno del Nord-Est (che ha una dimensione più ampia), il Veneto sia veramente il luogo della più profonda ed intensa trasformazione che vi sia stata in Italia negli ultimi decenni. Qui si è espressa una carica di operosità, di imprenditorialità e di straordinario dinamismo, cosa di cui siamo tutti orgogliosi. Ha ragione di esserne orgoglioso lei, dottor Bolla, ma ne siamo orgogliosi anche noi come italiani e come "Sistema Italia". Infatti, l'Italia non sarebbe quello che è oggi in Europa e nel mondo se non vi fosse stata questa trasformazione in un'area cruciale del Paese.
Qui si è messo in evidenza come siano stati importanti, in questa fase di trasformazione, non soltanto il contributo dell'agricoltura, che non è rimasta immobile ma si è sostanzialmente e qualitativamente trasformata a sua volta, e quello di settori come il turismo e il commercio, ma anche il contributo venuto dallo sviluppo culturale guidato dall'Università sul versante dell'alta formazione.
In altre parole, credo che vadano messe in evidenza la capacità di investimento, la progettualità e la propensione all'innovazione, che hanno caratterizzato il fenomeno principale rappresentato dallo sviluppo industriale, dalla moltiplicazione delle imprese che ha davvero cambiato la faccia di questa Provincia e di questa Regione. Forse non è superfluo ricordare che il Veneto è una regione che è passata da zona storica di emigrazione per povertà a zona di immigrazione. Naturalmente il fenomeno dell'immigrazione comporta una serie di tensioni e di problemi. Non credo che sarebbe corretta o realistica una visione idilliaca del fenomeno dell'immigrazione e del problema dell'integrazione degli immigrati in un tessuto economico, sociale ed anche istituzionale come il nostro; indubbiamente, però, questa presenza è un segno della capacità di sviluppo e di crescita dell'occupazione e del benessere che si è espressa, in modo particolare proprio nella provincia di Verona.
Mi ha molto interessato il discorso che è stato fatto sulle caratteristiche peculiari della realtà veronese, nell'ambito del Veneto e del Nord-Est. Oggi anche qui vi sono certamente dei problemi aperti sul versante dell'occupazione, nonché sul piano della prospettiva, del futuro e del consolidamento del sistema delle imprese. È stata fondamentale l'apertura verso l'estero, operata nel corso di questi decenni e fondamentale rimane oggi la capacità di competere, soprattutto con riferimento alla prontezza ed allo slancio con cui si "riprende la valigetta" e si va in giro.
Guardate che quando mi trovo fuori d'Italia, anche in paesi molto lontani e diversi dal nostro, sono colpito dal fatto che ovunque si colgano le tracce e le presenze vive di imprenditori italiani che provengono dalle regioni più varie; sono anche medi e piccoli imprenditori, che riescono ad inserirsi in segmenti di quei mercati con grande successo e con una notevole capacità di competere e di affermarsi. Questo è il segreto.
Naturalmente rimane il problema - che non penso possa essere eluso - dello sviluppo del mercato interno. Possiamo ragionare su come si siano sviluppati altri paesi, per esempio la Germania; anche l'Italia ha avuto, all'epoca del miracolo economico, uno sviluppo export-led, molto guidato dalle esportazioni, ed ancora oggi la Germania si caratterizza fortissimamente per uno sviluppo guidato da esse. Ma dobbiamo anche considerare questo grande problema della crescita del mercato interno che è assolutamente insoddisfacente: a questo proposito ho sentito anche l'accenno fatto dal rappresentante dei sindacati alla riforma fiscale, quale una delle chiavi necessarie per cercare di avere una prospettiva su cui contare nel senso di una maggiore espansione della domanda interna per consumi e per investimenti.
Ci sono problemi aperti. Sono d'accordo che non si tratta né di affermare che siamo nella crisi, piangendoci addosso, né di trascurare quello che ha rappresentato ed ancora rappresenta il tormento quotidiano delle imprese, come è stato qui affermato, per superare tutte le conseguenze della crisi globale che è stata, nel suo insieme, davvero sconvolgente. È necessario concentrarci sul domani, anche se vi sono ancora importanti nodi da sciogliere, soprattutto per quello che riguarda l'occupazione, che in questo momento rappresenta un punto critico rispetto a fasi precedenti di abbattimento drastico del tasso di disoccupazione in regioni come la vostra, e in tutte le regioni del Nord-Est e direi anche, un po' più in generale, in tutte le regioni del Centro-Nord. Mentre quegli stessi tassi sono rimasti elevatissimi nel Mezzogiorno; e questa è ancora oggi una delle principali connotazioni del divario esistente fra Nord e Sud.
Giustamente la rappresentante dei sindacati ha parlato di occupazione e di protezione dei lavoratori attraverso adeguati ammortizzatori sociali, anche con riferimento ai lavoratori immigrati, che rappresentano una questione con la quale bisogna fare i conti positivamente. In generale, credo sia stato molto importante lo sforzo compiuto da molte imprese per salvaguardare il capitale umano: quest'ultimo non è il primo peso di cui sbarazzarsi di fronte alla crisi, ma è la valvola essenziale da salvaguardare per il futuro. Naturalmente questo sforzo può non bastare quando si aprono crisi eterodirette, che vengono dal di fuori, come nel caso della crisi della Glaxo. Ne abbiamo parlato anche ieri con il Rettore, che mi ha accennato ai progetti che in questo senso si stanno delineando anche da parte della stessa Università. In quel caso credo che si debba, anche con l'impegno del governo nazionale, compiere ogni sforzo necessario per evitare che vada dispersa una straordinaria ricchezza ed una caratteristica veramente importante dell'economia veronese: mi riferisco a quella concentrazione di personale e di capitale umano altamente qualificato e impegnato nella ricerca di base.
Che cosa si chiede alla politica? Potrei cavarmela dicendo che quello che si chiede alla politica lo si chiede al Governo, alla maggioranza, all'opposizione, alle forze politiche, mentre io mi trovo al di fuori della mischia; tuttavia, intendo che quello che si chiede alla politica - uso le parole del presidente Bolla - è un contesto di stabilità e di certezza. Di ciò mi faccio pienamente carico e ho il dovere di farmene carico nello svolgimento del mio mandato.
Sono francamente persuaso che questo debba essere l'asse del contributo che mi tocca fornire nello svolgimento delle mie funzioni: garantire il massimo di stabilità politico-istituzionale. Questo non significa né immobilismo né negazione della dialettica fra maggioranza ed opposizione, ma credo che vi siano ampi spazi per confrontarsi, per competere ed anche per scontrarsi, soprattutto in occasione delle campagne elettorali; starei per dire "per scontrarsi con misura", ma talvolta i miei appelli al senso della misura appaiono un po' utopistici. Tuttavia, credo che vi sia la necessità di senso della misura, direi quasi di senso delle proporzioni.
Ci troviamo invece in una fase in cui sembrano valere soltanto i giudizi estremi: da una parte o dall'altra i giudizi vengono sempre portati alla massima estremizzazione possibile. Può darsi che si ritenga che questo "renda" politicamente ed elettoralmente, però è un atteggiamento che reca danni. Ritengo che queste conflittualità cieche ed esasperate debbano essere superate, e che vi debba essere il senso di una comune responsabilità nazionale per il futuro del Paese. Se non si operasse in questo senso, tutti finirebbero per pagarne le spese: la collettività e tutte le parti politiche e sociali.
In questo quadro ed a questo proposito, consentitemi di pronunciare qualche parola sul tema delle riforme, divenuto nuovamente di grande attualità. Faccio solo due premesse: in primo luogo, non guardiamo soltanto al nostro interno. Di qualsiasi cosa si discuta, non dobbiamo pensare soltanto a quello che è l'Italia, quasi che il nostro Paese non fosse collocato in una Europa integrata, in una Europa che può e che, ritengo, dovrebbe integrarsi maggiormente; che, comunque, rappresenta il nostro quadro di riferimento in un mondo in radicale trasformazione. Pertanto, badiamo molto alla politica europea dell'Italia ed a ciò che il nostro Paese è chiamato a fare per far crescere e salvaguardare il ruolo dell'Europa sulla scena economica e politica mondiale, che non è più quella di una volta. Capisco che questo possa turbare o irritare certi interlocutori stranieri, ma bisogna dire con molta franchezza che siamo entrati in un mondo nel quale anche i grandi stati nazionali europei, che furono (almeno alcuni di essi) grandi stati imperiali, non possono più giocare nemmeno lontanamente il ruolo di una volta. Tanto per non far nomi, né la Gran Bretagna, né la Francia, né la Germania - e naturalmente nemmeno l'Italia - possono più contare come una volta in un mondo così radicalmente trasformato nei suoi equilibri ed in cui il baricentro delle relazioni economiche e politiche internazionali si è spostato lontano dall'Europa e dall'Atlantico. Esso si è spostato verso il Pacifico, verso l'Asia, e sono emerse realtà di dimensioni impressionanti in impetuosa crescita, dalla Cina, all'India ed al Brasile. Nessuno Stato nazionale europeo, per quante siano le glorie del suo passato, può più contare se non compiendo il massimo sforzo affinché l'Europa parli con una voce sola e ponga tutto il suo peso sulla bilancia delle relazioni internazionali.
Il secondo concetto che vorrei aggiungere a premessa di queste poche parole è il seguente: attenzione, le riforme non sono una formula magica e non basta invocare le riforme per trovare la soluzione di tutti problemi. Talvolta - come si notava acutamente in un intervento di alcuni giorni fa, firmato fra gli altri dal Rettore dell'Università Bocconi - occorrono tanti interventi che possono apparire limitati e particolari, ma che sono pur sempre importantissimi. Non so se si possono mettere sotto il cappello delle riforme le affermazioni che anche qui sono state rese, e che sono essenziali proprio per garantire il pieno superamento della crisi e il pieno rilancio dell'economia nel Veronese: qui si è parlato di "tendenze da incoraggiare, da promuovere fortemente" all'aggregazione, al superamento di una eccessiva frammentazione, al superamento cioè di dimensioni troppo piccole delle imprese, alla ricapitalizzazione, nonché alla ulteriore qualificazione del capitale umano. Si tratta di obiettivi importanti e non possiamo pensare di scavalcare la necessità di interventi mirati o di politiche anch'esse mirate in una serie di campi, sventolando la bandiera delle riforme.
In una condizione ancora difficile e delicata per l'economia italiana, seriamente provata dalla crisi globale anche in realtà così consistenti e dinamiche come quelle di Verona e del Veneto, bisogna guardare avanti: credo che la chiave essenziale sia questa. Bisogna guardare alle condizioni da creare per aprire all'Italia, nell'ambito del contesto europeo, la prospettiva di una crescita ben più sostenuta di quella dell'ultimo decennio. Non c'è altra via per affrontare il problema dell'occupazione e quello del debito pubblico: se non vi è crescita, diventa sempre più difficile dominare la gestione del debito pubblico e soprattutto liberarci, via via, di questo fardello che ci impedisce di dedicare risorse ingenti all'investimento ed allo sviluppo. Tra le condizioni da creare per aprire all'Italia una prospettiva di sviluppo ben più sostenuto, si deve certamente considerare un insieme di interventi di riforma non soltanto in campo sociale ed economico, ma anche istituzionale; sono interventi di riforma che possiamo davvero considerare non più procrastinabili. Se ne parla da lungo tempo ed hanno avuto una certa maturazione; tuttavia essi sono sempre lì sul tavolo, in attesa di essere varati.
Ormai si pongono all'ordine del giorno - e sembra per certi aspetti che vi sia un largo consenso su questa necessità - questioni di riforma del fisco e del sistema di sicurezza sociale. Possiamo ritenere che l'Italia abbia dimostrato di avere un buon sistema di ammortizzatori sociali rispetto ad altri paesi; tra l'altro lo si è ulteriormente potenziato da parte del Governo e del Parlamento di fronte a questa crisi, ma non credo che noi possiamo ignorare che esistono anche problemi di riforma del sistema di sicurezza sociale, imposti ad esempio dal fenomeno incontestabile dell'invecchiamento della popolazione.
Si pongono all'ordine del giorno esigenze prioritarie di investimento nella formazione, nella ricerca e nell'innovazione, secondo criteri che garantiscano l'uso migliore delle risorse e premino il merito. A questo proposito, vi sono da varare interventi di riforma richiesti per la stessa Università. Anche in quel caso abbiamo un progetto di legge ed una discussione già avviata: una discussione di rinnovamento e di cambiamento del sistema universitario, uscendo da una contrapposizione sterile che qualche volta si manifesta tra detrattori in toto ed apologeti del sistema universitario. Credo che non vi sia spazio né per atteggiamenti indiscriminatamente distruttivi e denigratori né per apologie; occorrono interventi di riforma anche in quel campo. E si pongono all'ordine del giorno esigenze - non sembri un fuor d'opera - di riforma della giustizia, al fine di assicurare la certezza del diritto, che interessa molto anche la vita delle imprese e che, per esempio, può favorire anche l'attrattività del nostro Paese nei confronti degli investimenti esteri: è necessario assicurare la certezza del diritto, la tempestività e l'imparzialità delle indagini e dei giudizi.
Infine, quello relativo alle riforme istituzionali e costituzionali già da tempo maturate non è un tema astratto (anche se a volte vi è la tendenza a considerarlo tale), che quasi non interessi i cittadini e la società.
Sono sempre stato un convinto assertore (non solo per dovere istituzionale, avendo giurato fedeltà alla Costituzione, ma per un'esperienza che ho maturato nel corso dei decenni e che in me si è fatta sempre più viva) della fondamentale validità dell'impianto della Costituzione Repubblicana, dei suoi principi, dei suoi valori, quali sono sanciti nella Prima Parte della Carta, peraltro mai messa in questione. Nello stesso tempo sono stato e sono assertore della necessità di dover procedere alle modifiche necessarie della Seconda Parte, quella relativa alla organizzazione ed all'ordinamento della Repubblica.
Di questo argomento si parla in particolare in questi giorni ed è augurabile che si esca al più presto da anticipazioni ed approssimazioni che non si sa a quali sbocchi concreti, a quali proposte impegnative e a quali confronti costruttivi possano condurre. Vi sono punti di riforma da tempo largamente condivisi, addirittura già sul finire della precedente legislatura, in sede di Commissione Affari costituzionali della Camera. A mio avviso sarebbe realistico e saggio non mettere a rischio e non tenere in sospeso quelle convergenze, ma mirare a tradurle in corposi e consistenti risultati in tempi ragionevoli.
Certo, si possono legittimamente sollevare anche altri problemi e riaprire capitoli complessi e difficili, come quelli di una radicale revisione della forma di governo, su cui negli ultimi quindici anni non si sono però delineate soluzioni adeguate e politicamente praticabili; ma è bene tenere conto dell'esperienza, dei tentativi falliti (nel 2005-2006). E' bene tenere conto anche delle incertezze rivelate dalla discontinuità della discussione su taluni temi, che, come quello della forma di governo - del presidenzialismo o del premierato - hanno non a caso finito con l'essere accantonati per molti anni, dal 1997.
È bene soprattutto tenere conto della necessità di portare avanti il processo riformatore che è in corso, relativo all'attuazione del già riformato Titolo V della Costituzione. In altri termini bisogna lavorare seriamente al cantiere, già aperto, della legge delega approvata con così largo consenso per l'applicazione dell'articolo 119, quello sul federalismo fiscale, con il quale va messo in relazione anche il discorso sulla riforma più generale del fisco. Bisogna discutere altresì degli aggiustamenti - se si ritengono necessari - della stessa articolazione del Titolo V, e decidere come coronare l'evoluzione in chiave autonomistica e federalistica dello Stato italiano con la riforma di quel bicameralismo perfetto del Parlamento della Repubblica, che da un pezzo ha fatto il suo tempo.
Raccogliendo spunti da una conversazione che ho avuto ieri sera con il presidente Zaia e dall'intervento (che ho apprezzato) del sindaco Poli, nel corso dell'incontro con i rappresentanti della Giunta e del Consiglio comunale, dico che non deve e non può esserci alcuna contrapposizione fra autonomismo di ispirazione federalistica ed unità nazionale. D'altronde ce lo dichiara chiaramente l'articolo 5 della Costituzione che definisce la Repubblica come una ed indivisibile, impegnandola a riconoscere ed a promuovere le autonomie regionali e locali. Quella rappresentò una svolta che seguì al crollo del fascismo, come massima espressione di una ideologia accentratrice ed autoritaria e che culminò, appunto, nel dettato della Carta costituzionale.
Ancora di recente, in vista del 150º dell'Unità d'Italia, ho ricordato - parlando all'Accademia dei Lincei - il valore della scelta di dare vita, già nel 1945-1946, alle Regioni a statuto speciale. Già allora si riconobbe la necessità (poi ribadita dalla Carta costituzionale) di correggere e di superare il vizio di origine dello Stato unitario, quale nacque in Italia nel 1861: un vizio di origine centralistico ed uniformatore, che possiamo spiegare storicamente, ma che ha rappresentato a lungo una tara dello Stato nazionale italiano ed a cui si è deciso di porre mano creando le Regioni a statuto speciale, e scrivendo l'articolo 5 della Costituzione, peraltro tardando molto a darvi una parziale applicazione a partire dal 1970 fino alla nuova fase di sviluppo conseguente al rilancio autonomistico degli ultimi anni.
Se mi consentite, vorrei fare un'autocitazione. Non è molto elegante, ma vorrei sottolineare che, anche se oggi si parla molto di riforme, alcune cose andavano dette e sono state dette già prima da molti, anche da me. Per esempio, parlando nel settembre del 2008 a Venezia, dissi (e mi piace ripeterlo) "quel che occorre oggi è proprio la piena riacquisizione di una visione dell'unità nazionale come inseparabile da un'articolazione pluralistica ed autonomistica e destinata a trarre maggior forza e consenso proprio" da tale articolazione. Aggiunsi (talvolta non è necessario inventare nuove parole poiché queste non sono troppo vecchie) che "deve porsi in particolare un forte accento, qui in Italia, sul rapporto fra un più coerente disegno evolutivo in senso autonomistico e federalistico dell'ordinamento della Repubblica ed il superamento di quel persistente e perfino aggravato divario fra Nord e Sud, che denuncia la storica incompiutezza dell'unificazione nazionale. Ciò richiede la più chiara manifestazione di volontà nel combattere chiusure ed egoismi nelle regioni più sviluppate, nel tener fede concretamente al principio di solidarietà e nel chiamare, nel tempo stesso, le regioni del Mezzogiorno al pari di tutte le altre alla prova della 'responsabilità', parola chiave (lo penso anch'io) per l'uso economico ed il rendimento qualitativo delle risorse pubbliche nazionali ed europee".
Ho detto questo e lo ripeto anche oggi a Verona; lo dico sempre ovunque mi rechi nel Mezzogiorno: le classi dirigenti del Mezzogiorno sono più che mai chiamate alla prova dell'autogoverno, che è prova di responsabilità nell'uso delle risorse pubbliche, nella capacità di progettazione, di realizzazione e - se la parola non appare troppo grigia - di amministrazione; prova di responsabilità nella lotta contro il clientelismo e la corruzione (esigenza peraltro generale e nazionale), nonché contro la criminalità organizzata. Anche quest'ultimo è un impegno nazionale dello Stato, e in questo momento lo si sta ben assolvendo. Comunque, ciascuno deve fare la sua parte poiché, per crescere in modo più sostenuto che nell'ultimo quindicennio, l'Italia deve crescere tutta insieme. Vi sono risorse inutilizzate nel Mezzogiorno d'Italia, che debbono essere messe al servizio dello sviluppo nazionale. Noi abbiamo bisogno del massimo contributo delle regioni che hanno dato prova di grande dinamismo, come la Regione Veneto, ma abbiamo bisogno che non manchino all'appello quelle Regioni, in cui esistono risorse inutilizzate da impiegare nell'interesse generale.
Per finire, se mi consentite un accenno che mi è particolarmente caro, sono sicuro che, in questo spirito, dal Veneto verrà il giusto contributo alla celebrazione non retorica e non acritica del 150º anniversario dell'Unità d'Italia. Ho detto "non retorica e non acritica" perché quando affermo che lo Stato nazionale unitario è nato con un grave vizio di origine, evidentemente non indulgo né alla retorica né all'apologia. Ma occorre impegnarsi in questa celebrazione, partendo dalla ricostruzione della parte che ebbe nel processo unitario l'evoluzione del Lombardo-Veneto fino alla sua piena liberazione dal dominio straniero. Bisognerà attendere il 2016 per il centocinquantenario di Verona parte integrante dell'Italia, ma credo che - volendo - possiate anche anticipare quella celebrazione e congiungerla con quella più generale del 150º anniversario dell'Unità d'Italia.