Padova 11/11/2010

Intervento del Presdiente Napolitano in occasione della cerimonia di celebrazione del 60° anniversario del CUAMM

Saluto cordialmente voi tutti e saluto con particolare calore e affetto quelli tra voi che guidano, animano e sostengono il CUAMM.

Sono qui semplicemente per un riconoscimento e un omaggio, più per ascoltare che per parlare, sono qui per il riconoscimento e l'omaggio da tributare - e credo di poterlo fare a nome della Nazione e delle istituzioni repubblicane - a questa straordinaria realtà, una grande storia di cui oggi celebriamo il 60° anniversario.

Dopo avere incontrato alcuni di voi a Roma, a maggior ragione oggi credo di poter cominciare a comprendere meglio che cosa voi siate, quale patrimonio di generosità, di dedizione, di spirito di sacrificio sia stato accumulato in sei decenni dai "Medici con l'Africa". Anche questa, per fortuna, è l'Italia, e non dobbiamo mai dimenticarlo quando ci interroghiamo sulla nostra condizione di oggi e sul nostro futuro.

Nelle parole dell'Arcivescovo di Padova - che ringrazio in modo particolare per il modo cortese e generoso con cui si è rivolto a me - e nelle parole di Don Dante Carraro abbiamo sentito risuonare l'ispirazione cristiana del CUAMM, dei "Medici con l'Africa"; nelle parole del sindaco Zanonato abbiamo sentito il richiamo al dettato costituzionale. Ebbene, fra l'ispirazione cristiana che ha guidato i "Medici con l'Africa" e il dettato costituzionale c'è più di una assonanza, c'è una convergenza sostanziale attorno al grande principio, al grande valore che è l'imperativo della solidarietà, uno dei fondamenti della Costituzione repubblicana e quindi del patto che ci lega come italiani.

In quell'articolo della Costituzione che il Sindaco ha citato si parla di doveri di solidarietà. Mi permetto di ricordare che si usa il termine «inderogabili» doveri di solidarietà. Ebbene, dal momento che si è parlato anche di quello che stiamo e non stiamo facendo come Paese, come Stato italiano, come istituzioni, dobbiamo dire che, quanto a bilancio dello Stato per l'Africa, stiamo derogando da quegli «inderogabili» doveri di solidarietà. Questi che non sono solo doveri di solidarietà all'interno della nostra società, ma doveri di solidarietà verso il resto del mondo.

E quando ci domandiamo - se debbo domandarmi, come è giusto fare, anche sul perché di queste sordità o di queste assurdità - a proposito del fatto che con un tratto di penna si cancellino stanziamenti, impegni per la cooperazione allo sviluppo, per gli aiuti internazionali, la sola risposta che sono in grado di dare è che oramai c'è una grandissima confusione, un buio, un vuoto di riflessione e di confronto su una questione cruciale: quella delle scelte da compiere e delle priorità da osservare nella destinazione delle risorse pubbliche.

Abbiamo un debito pesante sulle spalle e dobbiamo fare i conti con una situazione finanziaria complessa, difficile e rischiosa sul piano internazionale; abbiamo degli impegni e degli obblighi europei. La risposta deve essere un contenimento della spesa pubblica. Ma dobbiamo o tagliar tutto o non tagliare niente? Io credo che non dobbiamo né non tagliare niente, né tagliare tutto.

L'arte della politica, la presa di coscienza e l'assunzione di responsabilità da parte dei poteri pubblici consiste proprio nel fare delle scelte, nello stabilire delle priorità, nel dire "no, a questo non possiamo rinunciare, non possiamo derogare", mentre ad altro possiamo rinunciare, possiamo apportare tagli. Ecco, io sento la necessità forte che si superi questo vuoto di riflessione e di confronto su una questione così cruciale.

Parlerò anche con i Sindaci del Padovano, con i Sindaci dei Comuni colpiti dalle alluvioni di questi giorni: cosa è indispensabile, cosa è elementare, cosa va al di là dei nostri interessi immediati, cosa implica la nostra responsabilità in quanto grande Paese europeo che ha alle spalle una grande tradizione di umanità e di civiltà come quella che ha l'Italia. Di qui si può partire per operare delle scelte sul piano finanziario.

D'altronde, non si parla forse, di tanto in tanto, sporadicamente, della necessità di provvedere allo sviluppo dell'Africa, provvedere allo sviluppo di Paesi dai quali vengono verso l'Europa schiere di immigrati, cercando in qualche modo una condizione di lavoro più umana o una qualsiasi possibilità di lavoro e di sostegno? Allora sì, in quei casi ne parliamo, ma quali conseguenze ne traiamo? Conseguenze assai labili, deboli; eppure, l'avanzamento economico, sociale e civile dell'Africa e dei Paesi più poveri rappresenta anche un interesse fondamentale di lungo periodo dell'Europa e dei Paesi che si sono finora considerati i più sviluppati.

Si è parlato dell'Africa per le piaghe che ancora la affliggono, a cominciare dalla povertà, così estesa soprattutto nell'Africa sub-sahariana; e sappiamo che ci sono altre terribili vicende di sfruttamento e di guerra, e che ci sono zone che oggi rappresentano davvero dei buchi neri per la comunità internazionale, come il Corno d'Africa, come la Somalia, che è uno dei Paesi più abbandonati a se stessi, più abbandonati ad una deriva micidiale.

Io voglio dire - e non solo perché condivido la dichiarazione di ottimismo che alcuni da questa tribuna hanno fatto - che fino a quando si ha un briciolo di responsabilità pubblica o di responsabilità pastorale non ci si può concedere il lusso del pessimismo. Bisogna essere ottimisti, bisogna nutrire speranza, ma sapendo qual è il prezzo dell'ottimismo, della speranza, e cioè una visione realistica, lucida, anche impietosa delle prove che ci attendono, delle prove da superare e quindi degli sforzi da compiere: sforzi come quello che voi avete compiuto finora e intendete compiere ancora.

E vorrei dire una parola in più nel senso dell'ottimismo: qualcosa in Africa si muove, l'Africa non è immobile, non è uguale a se stessa, non è nemmeno la stessa di dieci anni fa. Non dico in tutta l'Africa, certamente, ma in una parte dell'Africa, negli ultimi dieci anni, è accaduto qualcosa. Gli economisti stanno coniando anche nuove classificazioni, e ci dicono che ci sono Paesi considerati storicamente affluenti, che sono i Paesi di maggior benessere; poi c'è una categoria, per la quale è stato elaborato un concetto un po' sofisticato, che è quella dei Paesi convergenti, che cioè tendono a convergere in una prospettiva di crescita più sostenuta; poi c'è una terza categoria che è, come dire, suggestiva, quella dei Paesi che lottano (per andare verso la crescita, per uscire dalla povertà); infine, vi è la categoria dei Paesi che restano poveri: ma nel primo decennio di questo secolo e millennio ci sono stati oltre sessanta Paesi a basso e medio reddito che sono andati avanti, che hanno cominciato ad avanzare, anche perché trascinati dalla straordinaria crescita delle nuove economie emergenti, in modo particolare dell'Asia.

Quindi, se si vuole fare una politica che non è "a fondo perduto", ma una politica in grado di raggiungere degli obbiettivi e dei risultati per l'Africa, la si può fare oggi: bisogna crederci, e bisogna lottare perché questa politica prenda corpo, perché decolli.

Concludo soltanto dicendo che il vostro è un bellissimo anniversario. Perché guardando a voi, guardando a Don Luigi Mazzuccato - che anch'io chiamerò dottore, in omaggio alla decisione dell'Ateneo padovano - e ascoltando i vostri discorsi, mi risulta chiaro che questo non è un anniversario di conclusione dell'opera. A sessant'anni di distanza vedo intatte le motivazioni, le energie e la determinazione del CUAMM, dei "Medici con l'Africa", e questo è il tesoro che io porto con me da questo incontro con voi.