Roma 20/02/2011

Intervista del Presidente Napolitano a "Welt am Sonntag"

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla vigilia della sua visita ufficiale in Germania ha rilasciato al giornalista Thomas Schmid la seguente intervista pubblicata oggi da "Welt am Sonntag" con il titolo "La Fortuna dell'Italia".

 

Welt am Sonntag: Signor Presidente della Repubblica, tra poche settimane l'Italia celebra il 150° anniversario della fondazione del proprio Stato. Ora il Paese, invece di gioirne, deve prepararsi ad assistere ad un processo nei confronti del Presidente del Consiglio. Ed il Presidente della Provincia autonoma dell'Alto Adige si rifiuta persino di aderire ai festeggiamenti per l'Unità, dicendo che per lui non c'è nulla da festeggiare. Continua a piacere fare il Presidente della Repubblica viste tali circostanze?

Napolitano. Tra i miei doveri rientra anche quello di gestire situazioni difficili. Tra l'altro io sono molto impaziente di veder svilupparsi le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Per me e per tanti altri saranno una buona occasione per renderci conto di quello che abbiamo realizzato per questa nazione con questo Stato. L'Italia è uno Stato tardivo che però, - come la Germania - è riuscito ad assumere un buon ruolo nel concerto delle nazioni.

A proposito della Germania: nel nostro Paese i monumenti in memoria all'Unità tedesca sono risultati di dimensioni grandissime, gigantesche - non tanto perché la nostra identità nazionale sia così forte, ma anzi perché è debole. Passando poco fa qui a Roma a Piazza Venezia davanti al Vostro monumento nazionale di Vittorio Emanuele II, ho visto che si tratta di una costruzione poderosa che sovrasta tutto il resto. È debole anche l'identità nazionale italiana?

Un tempo era debole. I nostri due Paesi hanno diverse cose in comune. Come ho già detto, siamo diventati uno Stato nazionale relativamente tardi - si è trattato di un processo laborioso e doloroso. Probabilmente ha a che fare con le insufficienze dei nostri Stati nazionali così come si sono formati, il fatto che successivamente Italia e Germania abbiano imboccato la via del totalitarismo, gli Italiani quella del Fascismo, i Tedeschi quella del Nazismo. Delle affinità tra i rispettivi percorsi storici, entrambe le nazioni se ne resero conto ben presto. Lo si può vedere se si prendono le due figure maggiori per la fondazione dello Stato nazionale, Cavour e Bismarck. Lo Stato nazionale italiano è stato fondato nel 1861, dieci anni prima di quello tedesco. Bismarck ha seguito molto attentamente l'operato del sapiente politico Cavour nel processo dell'unificazione - che all'opposto di lui era un liberale.

Di nuovo: perché è mancata alle due nazioni la forza di resistere al totalitarismo?

Indubbiamente ciò ha a che fare con la debolezza delle istituzioni democratiche dei due paesi all'indomani della prima guerra mondiale. E anche il fatto che nei cittadini dei due Paesi non ci fosse una sufficiente coscienza democratica. Il filosofo Benedetto Croce, da sempre grande conoscitore e amico della cultura tedesca, ha sempre messo in guardia dall'identificare la Germania con il nazismo. Una volta asserì che i Tedeschi di Bismarck erano degenerati in Tedeschi di Hitler; però - aggiunse - tale circostanza non è avvenuta per ragioni genetiche, bensì ha rappresentato una vicenda storica, contingente, che si sarebbe corretta nel corso della storia. Parallelamente alla Resistenza italiana, ci fu anche resistenza antinazista in Germania - si pensi solo a Ulrich von Hassel, ambasciatore tedesco a Roma, richiamato da Hitler e giustiziato nel 1944 a Plötzensee. La Germania ha vissuto l'esperienza totalitaria fino alla sconfitta totale, finendo per essere più pesantemente distrutta. In Italia, invece, con la Resistenza si è imposta una forte spinta in grado di recuperare dignità e onore nazionale e di portare l'Italia nell'ultima fase della seconda guerra mondiale al fianco degli Alleati.

In questo periodo, tra il 1943 ed il 1945, fascisti ed antifascisti lottarono gli uni contro gli altri. Fu una guerra civile?

Diciamo che c'è stata una componente di guerra civile. C'è stata una guerra di liberazione, una guerra patriottica, perché l'obiettivo fondamentale della Resistenza, sia dei partigiani, sia dei militari che non vollero aderire alla Repubblica di Salò, era di riconquistare l'indipendenza nazionale con la libertà. Poi è stata anche guerra civile, senza dubbio. Su questo siamo andati oltre una rappresentazione retorica della Resistenza. Ne abbiamo vissuto tutte le facce.

 

Italia e Germania continuano ad essere nazioni deboli?

Decisamente no. Le preoccupazioni che la Germania potesse prendere una strada diversa con la riunificazione, si sono rivelate inconsistenti. E anche l'Italia è divenuta, dopo essersi liberata dal fascismo, una nazione affidabile e sicura di sè. Ciò ha molto a che vedere con l'Europa. È una fortuna immensa che si sia riusciti a creare con l'Unione Europea un'entità responsabile di aver promosso il benessere e in grado di offrire sotto il proprio tetto un'esistenza sicura in una condizione di stabile pace.

 

Il Risorgimento, il movimento di liberazione italiano, è stato animato dal senso di superiorità culturale basata sulla grande storia dell'Italia antica e medievale. E allo stesso tempo da un forte senso di reale arretratezza. Non è rimasto più nulla di questo modello romantico?

La fondazione dello Stato nazionale italiano segna per l'Italia l'ingresso nella modernità. Si è trattato della prima condizione per poter superare l'arretratezza in cui nel complesso eravamo rimasti. La frammentazione in tanti piccoli Stati, tra i quali il più solido Regno di Sardegna, il Regno delle due Sicilie e lo Stato della Chiesa, ci rendevano privi di forza, un'entità insignificante ai margini dell'Europa. Facendo della nazione uno Stato, siamo entrati sulla scena europea. Malgrado tutti i disastri che si sono succeduti, lo Stato nazionale è stata la forma grazie alla quale siamo riusciti a diventare un soggetto politico essenziale in Europa.

Nell'era della globalizzazione, le frontiere diventano sempre più permeabili e importanti. A che ci servono quindi ancora le nazioni?

Perché Europa significa unità nella diversità. È così che l'Europa è sorta ed è questa la via che essa deve continuare a percorrere. Non ci può essere uno stato europeo. Le nazioni sono una realtà storica e culturale, e in esse si incarna la memoria collettiva. E questi sono valori che non devono scomparire con l'eliminazione delle frontiere. I confini in un certo senso incarnavano l'eredità negativa del nazionalismo. Quanto meno in Italia, quello nazionale fu un movimento liberale. Successivamente esso, non solo in Italia, è scivolato nel nazionalismo che infine ha portato a due terribili guerre mondiali. È una grande conquista il fatto che non esista più l'Europa delle barriere e delle contrapposizioni nazionali. Durante il mio incarico di Ministro degli Interni, con l'entrata dell'Italia nel 1998 nell'Area Schengen non ho potuto rinunciare ad andare al Brennero per rimuovere la barriera con l'Austria. Lungo questo confine nel XX secolo per due volte si sono scontrati gli eserciti delle nostre nazioni. È stata una bella esperienza vedere che questo confine è divenuto superfluo - mentre invece le nazioni continuano ad esistere.

Che cosa la Germania potrebbe imparare dall'Italia?

Preferirei non rispondere direttamente a questa domanda perché avrebbe qualcosa di presuntuoso. Ma penso che ci siano buone ragioni perché la Germania, malgrado le nostre difficoltà attuali, possa guardare all'Italia con stima e fiducia. Nel dopoguerra siamo riusciti a ricostruire il Paese e a portarlo al benessere. Dopo la terribile esperienza del fascismo abbiamo ritrovato la democrazia. Oppure un altro esempio: siamo riusciti a tenere testa al terrorismo rosso degli anni 70 ed 80 che costituiva una sfida molto più radicata del terrorismo tedesco. Da noi, tra l'altro, rimase vittima del terrore un grande statista, Aldo Moro. Penso che il dinamismo e la creatività caratterizzino il nostro sviluppo più recente. Non so se la Germania può imparare qualcosa da noi - ma può certamente contare su di noi. L'Italia è una culla della civiltà europea. È quello che conta.

E che cosa invece l'Italia potrebbe imparare dalla Germania?

Tanto. Ora stiamo vivendo le conseguenze di una crisi globale, la più grande dopo quella degli anni '30 del Novecento - la Germania vi reagisce in modo esemplare. Quello che apprezziamo della Germania è la grande capacità di coesione sociale e la grande produttività e competitività della sua economia. Potremmo certamente imparare qualcosa della disciplina democratica che regna da voi. La Germania è uno Stato estremamente stabile ed efficiente. Lo apprezzo molto. Abbiamo fiducia nei confronti della Germania, e forse la cosa più importante: insieme, tedeschi ed italiani, abbiamo scritto la storia dell'Europa unita.

In passato i partiti hanno offerto ai cittadini una sorta di casa politica. Gli ambienti sociali creati dai partiti sono oggi in fase di dissoluzione. I partiti hanno perso irrevocabilmente questa forza di formare degli ambienti sociali?

Sono chiamati a riacquistare tale capacità, non vedo altra via. Non saprei quali altre forme altrimenti potrebbe assumere la vita democratica, la partecipazione democratica. Certamente è molto diminuita la forza dei partiti di mantenere il legame con i cittadini e di legarli a sé. In questo senso i partiti si sono impoveriti. Ma sono chiamati a riacquistare forza, insieme con tutte le espressioni della società civile. Una cosa è sicura, plebisciti e referendum non possono sostituire la democrazia rappresentativa, che è e continua a rimanere la migliore forma di democrazia e presuppone l'esistenza di partiti forti. Qualora i partiti non dovessero più essere in grado di coinvolgere i cittadini e organizzare il consenso, sarei allarmato per quanto concerne il nostro futuro.

Circa 20 anni fa è crollato il vecchio sistema partitico italiano. Ci sarebbe da pensare che 20 anni sarebbero dovuti essere sufficienti per crearne uno nuovo e stabile. A mio avviso, però, non sembra proprio.

La Sua impressione è giustificata e ben motivata. Non siamo riusciti a trovare un nuovo assetto politico che fosse stabile. Speravamo di pervenire, attraverso riforme elettorali, ad un sistema partitico bipolare solido: da una parte il centro-destra, dall'altra il centro-sinistra, nella chiarezza dell'alternanza. Sembrava essere tanto semplice, ma non lo fu. Vi sono state invece nuove escrescenze, nuove frammentazioni. A ciò si aggiunge che ci sono anche molti personalismi dentro e attorno ai partiti, il ché, in effetti, non contribuisce alla stabilità.

Aprendo i giornali italiani, ogni giorno mi imbatto con tenace regolarità già nelle prime pagine in scandali politici, intrighi - ogni giorno, come si usa dire in Germania, "si manda in giro per il paese una nuova scrofa ". Non è certo qualcosa di accattivante nei confronti della politica italiana.

In effetti, non è piacevole. Troppo spesso si scelgono toni troppo clamorosi, troppo eccessivi, nel giudizio si manca di misura, molte analisi sono contraddistinte da un certo estremismo. Tutto questo contribuisce a inasprire la tensione politica. I partiti si scontrano, si dividono - tutto questo in un certo modo è normale in una democrazia. In Italia, tuttavia, ciò degenera in una vera e propria guerriglia politica.

Lei crede che l'attuale Governo guidato da Silvio Berlusconi reggerà?

Io credo che un Governo regge finché dispone della maggioranza in Parlamento e opera di conseguenza.

È stato appena deciso che il 6 aprile inizierà il processo nei confronti del Presidente del Consiglio Berlusconi. Lei che ne pensa?

Penso che abbia le sue ragioni e buoni mezzi giuridici per difendersi contro le accuse. Sia la nostra Costituzione, sia le nostre leggi garantiscono che un procedimento come questo, in cui si sollevano gravi accuse che il Presidente del Consiglio respinge, si svolgerà e concluderà secondo giustizia. Confido nel nostro Stato di diritto.

Lei conosceva personalmente lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini ed ha più volte litigato pubblicamente con lui. Pasolini criticò aspramente la politica e la società italiana, Lei lo accusò di dipingere tutto di nero. Come vede le sue critiche oggi?

Conoscevo bene Pasolini, ci incontrammo spesso e ci stimavamo a vicenda. Fu un poeta, un visionario - e le sue visioni erano spesso cupe. Ma senza dubbio presagì alcuni sviluppi che poi si verificarono veramente. Il suo pessimismo non era del tutto infondato.

La Sua autobiografia contiene anche un'autocritica: Lei descrive il Suo cammino da comunista a socialdemocratico. Che ne rimane dell'idea del socialismo che ha ispirato tanti uomini proprio in Italia?

E non solo in Italia ! Rimane l'ideale dell'emancipazione del mondo del lavoro, e più in generale l'ideale della giustizia sociale in società che hanno visto crescere le disuguaglianze. È completamente fallita, di contro, l'idea di un sistema economico che fosse un'alternativa valida al sistema capitalistico e addirittura all'economia di mercato.