Aosta 07/10/2011

Risposte del Presidente Napolitano ai giovani amministratori degli Enti locali in occasione dell'incontro "Scuola per la democrazia"

Posso anche cominciare a rispondere partendo dall'ultima domanda, che mi riguarda personalmente, in questo momento e ancora per un po'. Prima di diventare Presidente della Repubblica non ho francamente studiato su come si esercita questa funzione. Ho osservato i miei predecessori e, in un periodo specifico, quando sono stato Presidente della Camera dei Deputati, sono stato anche più vicino all'esercizio delle funzioni di Presidente della Repubblica da parte di chi allora aveva questa elevata funzione: era il Presidente Scalfaro. Ciò che però, francamente, mi è stato sempre chiaro, anche nel passato, e da parlamentare, non avendo alcuna prospettiva di questo tipo davanti a me, ho cercato di intendere, è che la collocazione del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento è molto ben definita.

Si possono leggere utilmente gli atti della Costituente, perché in quella sede ci fu un ampio dibattito sulla figura del Presidente della Repubblica. Voi sapete che in Assemblea Costituente c'era anche una corrente favorevole all'instaurazione di una Repubblica non parlamentare, ma presidenziale: è stata una corrente poi risultata del tutto minoritaria, ma nel dibattito c'era anche questo riferimento. La scelta, però, è stata tutt'altra; da parte di importanti soggetti del dibattito in Costituente, compreso il Presidente della Commissione dei 75 che fu incaricato di redigere il progetto, l'onorevole Meuccio Ruini, vi sono state anche delle vere proprie definizioni della figura del Presidente della Repubblica.

C'è un'antica definizione, che risale a Benjamin Constant, un pensatore di epoche precedenti, quando non c'erano ancora repubbliche, ma fondamentalmente regni, dunque re, come Capi di Stato, e si poneva l'esigenza di un «potere neutro» che (questa fu la definizione) regolasse la vita dello Stato. In sostanza, a quel modello, a quell'idea si sono ispirati anche i nostri costituenti: avere un Presidente della Repubblica al vertice dello Stato con poteri non esecutivi. Questa è una caratteristica che si ritrova anche in altri Stati democratici europei, direi nella maggioranza di essi: comunque venga eletto il Presidente della Repubblica, si tratta di Presidenti non esecutivi, che cioè non hanno poteri di governo. Alcuni di essi sono eletti direttamente dai cittadini, ad esempio il Presidente austriaco; altri, ad esempio quello italiano e quello tedesco, no. Però, in sostanza, la figura non muta: indipendentemente dal tipo di investitura si esercitano poteri regolatori - se volete anche funzioni di moderazione rispetto allo scontro tra gli opposti schieramenti politici - senza entrare nel merito di scelte che spettano all'Esecutivo e poi, naturalmente, al Parlamento, perché qualsiasi iniziativa di carattere legislativo e qualsiasi scelta di carattere politico venga assunta dal Governo passa poi ovviamente attraverso il vaglio e la deliberazione del Parlamento.

Ritengo che così intesa, quella del Presidente sia una funzione perfettamente esercitabile con coerenza: non ci sono a mio avviso grandi dilemmi. Ci possono essere essenzialmente sollecitazioni affinché il Presidente non faccia troppo. Io non credo che il Presidente della Repubblica abbia bisogno di maggiori poteri di quelli che ha adesso, secondo la Costituzione. Poi, la Costituzione va interpretata: ci sono anche una dottrina e una prassi che integrano il dettato della Costituzione. Ma mi pare che non ci sia nessuna concreta esigenza di attribuire maggiori poteri al Presidente della Repubblica, anche perché attribuendogli maggiori poteri effettivamente si rischierebbe di alterarne la figura.

Non penso sia una figura "pleonastica" - come si dice per qualche Capo di Stato, soprattutto qualche monarca, in altri Paesi - la cui funzione si sostiene essere essenzialmente quella di tagliar nastri alle inaugurazioni. Farei una vita molto più tranquilla se dovessi solo tagliare nastri! Naturalmente, ogni tanto debbo fare inaugurazioni: ci sono anche occasioni di rappresentanza formale, che però hanno un valore istituzionale e nazionale. C'è inoltre una funzione di rappresentanza internazionale, che è importante: anche questa non è una funzione che si esercita scavalcando le prerogative del Governo nel campo della politica estera: in generale, direi sempre, qualunque missione all'estero io faccia, o anche qualunque funzione io svolga nel Palazzo del Quirinale, ricevendo Capi di Stato o rappresentanti di Stati stranieri, esercito questa funzione congiuntamente con il rappresentante del Governo, con il ministro degli Esteri. C'è quindi sempre una sostanziale ricerca di sintonia.

Ci sono comunque alcuni poteri specifici, abbastanza peculiari dell'ordinamento italiano, che danno un ruolo accentuato al Presidente della Repubblica nel rapporto con il Governo e con il Parlamento nel campo della politica della Giustizia e della politica della Difesa. Il Presidente è anche Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, quindi senza dubbio esercita una funzione pregnante nel rapporto con il mondo e con l'amministrazione della giustizia. Ed è poi un organismo previsto dalla Costituzione italiana quel Consiglio Supremo di Difesa che una legge ha determinato nella sua esatta composizione: un organismo formato da rappresentanti del Governo, da tutti i ministri interessati alla politica della Difesa, presieduto dal capo dello Stato, definito dagli analisti della Costituzione e dagli studiosi come un organo di alta consulenza, nel quale comunque si cerca di tracciare le linee della politica di Difesa del Paese, tranne poi affidarne al Governo tutte le implicazioni e attuazioni successive.

Chiarito ciò, mi trovo francamente a mio agio; e in quanto ad alcuni apprezzamenti generosi per il modo in cui esercito il mandato, è forse il caso di osservare che la vocazione - da molti riconosciutami - all'imparzialità, all'equilibrio, o alla serenità, è una vocazione per modo di dire: è piuttosto il risultato di uno sforzo che la persona investita di un mandato come il mio compie ogni giorno. La serenità non è un dono di natura, ci potrà essere una varietà di temperamenti tra i Presidenti della Repubblica, ma è qualcosa che si costruisce nella comprensione del mandato da svolgere, della funzione che si è stati chiamati a svolgere e dei suoi limiti, oltre che del suo contenuto.

Le altre domande riguardano tutte questioni sulle quali non ho potere di decisione, tanto per essere chiari. La politica per il Mezzogiorno, la politica finanziaria e anche, oltre un certo limite, quella internazionale e la politica della finanza pubblica (che poi ha come risvolto anche provvedimenti che limitano le risorse per i servizi nel Mezzogiorno), sono tutte di spettanza del Governo.

Naturalmente non mi sottraggo ad esprimere una mia opinione. E sul Mezzogiorno potrei intrattenermi a lungo, ma non mi pare sia il caso.
Noi abbiamo detto, celebrando il Centocinquantenario dell'Unità d'Italia, che la maggior incompiutezza del processo di unificazione a distanza di 150 anni rimane il divario tra Nord e Sud. C'è stato uno studioso, purtroppo scomparso, il professor Cafiero, che è stato Presidente della SVIMEZ - un'antica, consolidata e prestigiosa istituzione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno - il quale, a conclusione di un suo libro ha scritto che uno Stato il quale sia nato con la missione di unificare il Paese e non ci sia riuscito per questo aspetto cruciale, deve considerarsi che abbia fallito la sua missione storica. È un'affermazione molto forte, che credo vada presa con cautela, però credo che debba anche trarsene un forte motivo di riflessione e di impegno. Siamo inadempienti rispetto a questo obbiettivo, che certamente era nella mente dei costruttori dello Stato nazionale unitario. Non è che il divario tra Nord e Sud sia rimasto sempre uguale, né che siano mancate politiche e fasi di più intenso sviluppo del Mezzogiorno. Ad esempio, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, benché osteggiata all'epoca dall'opposizione in Parlamento, perché veniva considerata contraddittoria rispetto ad una delega di maggiori poteri alle Regioni, ha rappresentato in ogni caso una svolta molto significativa e, secondo il giudizio più condiviso, ha dato per almeno un decennio dei risultati importanti. Poi, come accade, quella istituzione e quella politica sono entrate in una fase quasi degenerativa; in ogni caso c'è stato un impoverimento, una perdita di efficacia.

Adesso siamo in un momento in cui si leggono dati altalenanti. Gli ultimi indicano una ripresa dell'economia del Mezzogiorno lievissimamente maggiore rispetto al Nord, però la tendenza è ancora alla persistenza di un divario molto profondo e molto grave; quindi, chi governa deve innanzitutto avere l'idea dominante di superare questo divario, l'idea di una strategia per il Mezzogiorno. Non si tratta soltanto di annunciare ogni tanto un provvedimento, o di cifrare un certo numero di miliardi di Euro che si suppone siano a disposizione per il Mezzogiorno. Si tratta di avere una visione del possibile sviluppo in tempi determinati dell'economia e della società meridionale, soprattutto perché - com'è stato affermato più volte e come è stato ribadito in occasione di molte elaborazioni ed analisi autorevoli, per esempio in Banca d'Italia - non si può immaginare uno sviluppo più intenso e continuativo dell'economia nazionale senza l'apporto delle risorse di cui dispone il Mezzogiorno.

Si afferma che occorre che l'Italia cresca. Avete visto ancora ieri un giudizio molto critico del Fondo Monetario Internazionale, che ha rilevato come l'economia italiana sia cresciuta degli ultimi vent'anni in modo deludente. Qualcuno puntualizza che questo è avvenuto soprattutto negli ultimi dieci anni e si aggiunge che occorrerebbe che l'economia italiana crescesse non al ritmo dell'uno per cento, poco meno o poco più, ma ad un ritmo che alcuni quantificano almeno del 3 per cento all'anno, anche per poter allentare la morsa del rapporto fra debito e prodotto lordo. Ma un simile ritmo di sviluppo complessivo dell'economia nazionale è irraggiungibile se non si mettono in campo le riserve e le potenzialità di cui dispone il Mezzogiorno, che sono in gran parte riserve di capitale umano, largamente inutilizzato. Questo è il punto cruciale, attorno a cui naturalmente occorrerebbe approfondire e concretizzare proposte e prospettive.

Circa la questione della sopravvivenza dell'Euro: mi sembra che siamo tutti abbastanza convinti che l'Euro possa e debba sopravvivere. È stata una grande conquista, un grande balzo in avanti del processo di integrazione europea, e non possiamo nemmeno concepire di tornare indietro da quella conquista, da quel raggiungimento, da quell'esperienza, che oramai ha alle spalle dieci anni.

L'Euro si è affermato come molti non credevano si affermasse nel rapporto con altre valute, anche valute di riserva. Basti pensare al rapporto Euro-Dollaro, che molti non credevano potesse volgersi così nettamente a vantaggio dell'Euro. Poi, naturalmente, ci sono i risvolti più problematici dell'Euro forte, perché l'alto apprezzamento dell'Euro ha senza dubbio rappresentato un fattore di complicazione del nostro export: ma è stato un chiaro segno della solidità delle fondamenta della moneta unica.

La domanda è però se l'Euro possa sopravvivere senza un governo europeo. È una questione che viene molto dibattuta nel momento attuale: io stesso sono stato chiamato a dibatterla in questo mese, essendomi stato chiesto di inaugurare l'anno accademico del Collège d'Europe, che, come sapete, da molti anni opera a Bruges. Bisogna però intendersi sul termine "governo". Se l'intento è di abbracciare la costruzione di un governo centrale europeo vero e proprio (e questo lo hanno pensato in non pochi), questo significa trasformare l'Unione Europea, che attualmente è una unione di popoli e di Stati, in uno Stato federale, con le sue articolazioni interne. In realtà le ragioni e le posizioni contrarie a questo svolgimento sono state e rimangono numerose. C'è chi sostiene ad esempio che l'Unione Europea - l'Europa integrata, unita - non può che essere una costruzione multi-livello dal punto di vista istituzionale: non uno Stato federale vero e proprio, ma un intreccio di livelli di governo ispirato al principio della sussidiarietà, dove si incontrino i governi nazionali (ed anche le regioni) e le istituzioni sovranazionali europee, in un processo regolato essenzialmente dai Trattati.

Però, oggi dobbiamo sicuramente fare, io ritengo, un salto di qualità verso il superamento dei limiti entro cui è stata racchiusa l'esperienza della moneta unica. La moneta unica era soltanto l'anello forte per la costruzione di una Unione Economica e Monetaria, così come si chiama anche nel Trattato vigente, mentre l'aspetto dell'unione economica è rimasto largamente trascurato. Quindi, in primo luogo bisogna non avere solo una politica monetaria comune, perché se gli Stati aderenti hanno rinunciato alla loro sovranità nazionale in campo monetario e la sovranità monetaria è stata trasferita al livello europeo, all'Unione Europea, non è stato però trasferito nulla per quel che riguarda la costruzione di una politica economica, né una responsabilità generale complessiva.

C'è qualcuno che adesso sostiene una proposta relativamente più precisa, cioè la nomina di un ministro europeo dell'Economia. D'altronde, nel Trattato costituzionale, che come voi sapete cadde per l'esito negativo dei referendum in Francia e ed in Olanda, l'Alto Rappresentante della politica estera (che poi con questo nome è rimasto nel Trattato di Lisbona, anche assumendo il ruolo di Vice Presidente della Commissione Europea), veniva chiamato ministro degli Esteri; poi, questa denominazione apparve troppo audace. Ma come si è concepito un ministro degli Esteri dell'Unione Europea si può anche concepire un ministro dell'Economia.

Al di là delle figure istituzionali, l'essenziale è che non possiamo avere tante politiche fiscali quanti sono gli Stati aderenti all'Eurozona. (Per "politiche fiscali" sorgono spesso degli equivoci, traducendo dall'inglese: perché in inglese fiscal policy significa politica di bilancio, mentre da noi significa soltanto politica delle imposte). Comunque, anche la politica della tassazione non può variare da Stato a Stato fra quanti aderiscono all'Euro, senza alcuna forma nemmeno di coordinamento. Quindi, si comincia a parlare della necessità di una politica della tassazione che sia, se non uniforme, seriamente coordinata. Lo stesso si comincia a pensare per la politica di bilancio. Sono stati due Stati nazionali molto gelosi delle loro prerogative, la Germania e la Francia, entrambi molto attivi nel gestire gli affari europei, ad arrivare a formulare proposte del genere. Sono arrivati anche a proporre misure comuni di politica salariale quando, per esempio nella prima bozza di Patto per la competitività presentata dal Cancelliere Merkel e dal Presidente Sarkozy, hanno scritto che non dovevano esserci più sistemi di indicizzazione dei salari (problema che in Italia è risolto e altrove no).

Questo segna un'evoluzione in atto. Anche i Paesi che si sono opposti a qualsiasi allargamento delle competenze dell'Unione Europea, a qualsiasi allargamento dell'area delle politiche comuni europee, oggi in realtà sono spinti dalla necessità e, diciamolo pure, dalla crisi dell'Eurozona a fare proposte molto più avanzate rispetto a quelle che non erano disposti ad accettare 7-8 anni fa, quando si discuteva del Trattato costituzionale. Sono convinto che bisogna andare fortemente in questa direzione, anche se nessuno è in grado di prefigurare in questo momento gli esiti ultimi, gli sbocchi conclusivi.

Sulla questione relativa ai provvedimenti del governo, io non mi pronuncio. Lo farà il Parlamento, in quell'ambito lo farà l'opposizione, e lo faranno le Regioni, consultate attraverso le espressioni della Conferenza Stato-Regioni quando si tratti di provvedimenti di riduzione dei trasferimenti alle Regioni stesse, che possono avere come conseguenza la riduzione di servizi sociali e di altra natura.

Credo che bisogna comprendere, da parte delle Regioni del Mezzogiorno, dei cittadini del Mezzogiorno e di coloro che li rappresentano, che ci sono molte cose da correggere nella gestione delle risorse che sono state rese disponibili per trasferimento dal bilancio dello Stato o anche per trasferimento dal bilancio dell'Unione Europea. Parlo ad esempio dei fondi strutturali, che sono stati destinati alle Regioni del Mezzogiorno o ad alcune di esse. Molto non è stato ben gestito. In alcuni casi molto non è stato nemmeno utilizzato. Ci sono inoltre sprechi e costi di servizi che non possono essere più sostenuti, e occorre quindi anche in materia di servizi un ripensamento molto serio, per avere servizi più efficienti e meno costosi. Qui non si tratta di fare una graduatoria tra una parte del Paese e l'altra: non c'è una parte del Paese che possa solo inalberare la barriera della virtù, scaricando sull'altra parte del Paese l'infamia del vizio. Ci sono molte cose da correggere in tutte le parti del Paese; ma non c'è dubbio che nel Mezzogiorno non si possa dire: "Continuate a trasferire tutte le risorse che abbiamo ricevuto fino ad ora e noi continueremo a gestirle come abbiamo fatto fino ad ora"!

Sono davvero molto favorevolmente colpito dal fatto che cresca la percentuale degli under-twentyfive, comunque dei giovani amministratori eletti nei consigli comunali. Questo sfata anche molte leggende, perché le generalizzazioni sono tutte condannate a sfociare nella banalità: i giovani sono estranei alla politica, non si interessano; oppure: oramai non solo l'Italia è un Paese per vecchi, ma anche la politica è una cosa per vecchi. Mi pare che voi ne diate una smentita molto, molto significativa.

Capisco anche le difficoltà di chi si è buttato da poco nel mondo della politica. Ritengo che sia intanto essenziale che nel buttarsi, o dopo essersi buttati, si abbia anche cura della propria formazione politica. Naturalmente, su questo si possono fare discorsi molto lunghi.

Ho notato nell'introduzione dell'amico Luciano Violante l'espressione «volontariato della politica». Esiste una distinzione in categorie? Ci sono i volontari e ci sono i professionisti della politica? Sono del parere che per prestare la propria opera, come nelle forze armate si è dovuti passare da un esercito professionale ad un esercito più volontario, così forse possa avvenire anche nella politica. Però, facciamo attenzione. Una volta un grandissimo scienziato sociale - Max Weber - ha affermato che la politica è «una vocazione e una professione». Questa tesi è stata molto messa in discussione; ma che ci si possa dedicare anche per un lungo periodo della propria vita all'esercizio di funzioni rappresentative politiche non è da negare, tantomeno da demonizzare. Poi, qualche volta si afferma che non bisogna eleggere nessun parlamentare per più di due legislature o per più di tot anni: sono, questi criteri o parametri che si suggeriscono, in generale un po' arbitrari. In ogni caso, può accadere di svolgere questo lavoro per un numero abbastanza significativo di anni, perché poi la politica, quando si hanno queste responsabilità, è anche un lavoro. Ci sono persone che possono considerarsi - per loro cultura, per loro interessi - non essenzialmente dei politici. C'è stato il caso molto illustre di uno dei maggiori pensatori italiani del Novecento, Benedetto Croce, che per due volte è stato ministro (prima della Prima guerra mondiale fu ministro della Pubblica Istruzione; dopo la Seconda Guerra mondiale fu Vice Presidente del Consiglio nei governi di unità nazionale, e fu anche eletto all'Assemblea Costituente), il quale ha sempre detto: "Io solo in casi eccezionali posso essere chiamato e sono disponibile a dare la mia opera nell'arena politica, ma la politica non fa per me, io non sono fatto per la politica". Poi ha sostenuto che la politica è «un'arte». È la definizione più nobile e attraente che se ne possa dare.

Studiate, però, per apprendere l'arte della politica, perché non c'è dubbio che ci siano un dizionario, una grammatica, un armamentario della politica, che sono fatti di molte cose: di conoscenze e anche di metodi da apprendere. Più farete questo, meglio svolgerete, anche soltanto per quattro o cinque anni, la vostra funzione di amministratore o di consigliere comunale. Meglio la farete, più potrete rimuovere il pregiudizio dei vostri coetanei: si può far loro una predica, dicendo che la politica è una bella cosa, entusiasmante, non è una cosa sporca... L'altro giorno mi trovavo a Napoli in un'assemblea di ragazzi e mi venne di dire quella frase: c'è molta deplorazione della politica, si maledice la politica, si impreca contro la politica, ma la politica siamo tutti noi! In realtà parafrasavo una frase che avevo citato un'altra volta, che era quella bellissima di un giovane della Resistenza condannato a morte, Giacomo Ulivi, il quale racconta nell'ultima sua lettera come durante il fascismo egli avesse vissuto un'atmosfera di esorcizzazione e maledizione della politica, nel senso che la politica è una cosa sporca, per cui non bisogna occuparsene. Egli reagiva a questo affermando: "Va bene, se la si ritiene una cosa sporca, la conseguenza è che in ultima istanza la si fa fare agli altri, che magari la fanno veramente sporca!". Diceva pertanto: "La cosa pubblica, la politica siamo tutti noi!".

Ritengo che questo discorso pedagogico, anche se avete la stessa età di quelli che finora non "bevono" il discorso della politica, vi spetti farlo. Però, poi, molto dipende dall'esempio, dalla concretezza: realizzo queste cose facendo politica, buttandomi nella politica, e questo deve indurti ad avere fiducia nella politica o quanto meno a non disprezzarla.

Che le campagne elettorali siano competizioni è abbastanza naturale. È il sale della democrazia, siamo in un regime democratico che di per sé si fonda sulla pluralità delle opinioni e delle posizioni politiche e sulla gara per la conquista della maggioranza al livello comunale, regionale o nazionale. Poi, nel momento in cui da candidato che combatte per essere eletto e per far vincere il proprio partito, si diventa una cosa diversa, cioè si diventa amministratore nell'interesse generale, l'ottica deve cambiare: bisogna superare o sforzarsi di superare l'ottica ristretta di partenza, che è quella del partito. Ritengo che questo si possa ben fare. Non c'è nessuna remora, perché poi il proprio partito o capisce che esso stesso ha interesse che i propri eletti amministrino e governino nell'interesse generale, o si condanna a delusioni cocenti e anche a sconfitte amare.

Naturalmente, la scuola è una sede fondamentale di formazione civica e politica. Sono stato per tanti aspetti molto colpito in questi anni dalla partecipazione della scuola a tanti eventi. Noi celebriamo alcune ricorrenze in Quirinale - ad esempio la Shoah, con la giornata dedicata allo sterminio del popolo ebraico da parte del nazismo; l'anniversario della nascita dell'Europa, il 9 maggio, nella ricorrenza della Dichiarazione Schumann; la giornata per le vittime del terrorismo - e ogni volta su questi temi ho visto una mobilitazione di ragazzi delle scuole che è andata davvero al di là delle mie aspettative. Prendono iniziative, si muovono, fanno esperienze, visitano luoghi, scrivono, partecipano a delle gare. Ricordo che in una delle giornate che abbiamo dedicato alla memoria delle vittime del terrorismo, si sono presentati trenta ragazzi di una scuola secondaria superiore del Trentino, che avevano dedicato l'intera estate a cercare i familiari di caduti, di vittime del terrorismo, per intervistarli, per farsi raccontare le loro storie: e le hanno raccolte in un volume intitolato - se se vi capita, leggetelo, perché è molto bello - "Sedie vuote". Queste sono cose che dimostrano quale potenzialità straordinaria abbia la scuola dal punto di vista formativo proprio del senso civico e politico non partitico. Circa l'Europa, ritengo che veramente si sia fatto molto. Per coltivare l'idea di un'Europa unita, che poi è molto più naturale nei giovani di quanto non lo sia stata negli italiani di generazioni più anziane. Anche per il Centocinquantenario le scuole sono state veramente un crogiuolo, un luogo di fervore di iniziative dal basso, molteplici e le più varie. Credo moltissimo a questa funzione della scuola.

Il federalismo è un grosso discorso. Nel Centocinquantenario abbiamo ricordato che è esistita e ha operato una corrente di pensiero federalista nel nostro Risorgimento. Non ha prevalso, non è stata una corrente maggioritaria o vincente, però ci sono stati grandi apporti. Si fa naturalmente il nome di Carlo Cattaneo, ma anche quello di Ferrari. E ci sono state successivamente altre espressioni di pensiero federalista: mi riferisco ad esempio a un pensatore, un giurista che è stato poco coltivato, un giurista, Silvio Trentin (padre del più noto sindacalista dei tempi recenti), un antifascista condannato all'esilio, il quale ha scritto opere notevoli, ricordate soprattutto dall'Università di Padova.

Adesso noi stiamo lavorando sul tessuto che è stato predisposto dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Senza imbarcarci in una disputa teorica, però pensando deliberatamente a modificare l'assetto dello Stato nazionale unitario quale uscì dagli anni immediatamente successivi all'unificazione del 1861 e da quando si è scritta la Costituzione, anzi da quando con i primi Decreti Luogotenenziali vennero gettate le basi per l'autonomia delle Regioni a statuto speciale, dalla Sicilia alla Valle d'Aosta. È con l'articolo 5 della Costituzione che nello stesso testo si mettono in sinergia l'unità e l'indivisibilità. Con la promozione delle autonomie abbiamo cercato una strada di superamento di una tara d'origine dello Stato nazionale unitario, ed è perciò che poi si è realizzata una larga convergenza nel varo della legge per il federalismo fiscale.

Naturalmente, sulla definizione del federalismo fiscale si può discutere: può esistere federalismo solo per un pezzo delle funzioni dello Stato? È una questione di grande attualità, che si era cercato già parecchi anni fa di avviare a soluzione. Era quella di avere anche una proiezione di questa evoluzione in senso fortemente autonomistico e perfino federalistico dello Stato al vertice, nei rami alti delle istituzioni, cioè superando il bicameralismo paritario cosiddetto perfetto e avendo accanto alla Camera dei Deputati un Senato delle Autonomie. Per il momento non ci si è riusciti, ma quella è una "chiusura" di sistema importante, se vogliamo andare avanti con il federalismo in campo fiscale e in altri campi. Ora si fa fatica a realizzarlo, però l'esperimento italiano è quasi unico, perché altrove si è costruito uno Stato federale fin dall'inizio. Questo vale non soltanto per gli Stati Uniti d'America, ma anche per la Germania federale. Noi invece dobbiamo trasformare uno Stato abbastanza rigidamente accentrato in uno Stato di tipo federale. Non è una torsione da poco. Quindi, che ci voglia del tempo non dovrebbe stupire nessuno. Certamente, se è stata data una rappresentazione un po' miracolistica della legge sul federalismo fiscale, si è sbagliato, quasi dicendo "in quattro e quattr'otto andremo a un nuovo sistema di ripartizione delle risorse e delle responsabilità". Ci vuole anche una certa costanza, tenacia, determinazione e pazienza; e bisogna cercare di non procedere a zig-zag. Ma questo è un punto molto politico, su cui non mi addentro.

Ringrazio molto voi tutti. Sto capendo un po' di più che cosa significhi "democrazia deliberativa". È un concetto non facile! Grazie e auguri!


D O M A N D E

Michele Nardi
Consigliere comunale di Poggio Mirteto (Rieti)
Sono consigliere comunale di Poggio Mirteto, un comune della provincia di Rieti. Lei, Presidente, sostiene che il Mezzogiorno non può più attendere per uno sviluppo degno di tal nome. Qualcuno sostiene che si rischi anche uno tsunami demografico da Sud a Nord, soprattutto in tempi di attuazione del federalismo fiscale e di nuovo regionalismo, dove le risorse per il Sud sicuramente diminuiranno. Come si pensa quindi di riuscire a favorire quelle dinamiche sociali ed economiche atte appunto ad attuare quella che sarà la ripresa economica del Mezzogiorno d'Italia?

Alessandro Coriani
Sindaco di Ruvinati (Varese)
La mia domanda è sul futuro dell'Europa. In virtù della crisi economica in corso ci chiedevamo: la nostra moneta unica potrà sopravvivere in assenza di un governo centrale europeo reale, che distribuisca le risorse tra i Paesi e che armonizzi la tassazione?

Antonella Ruggero
ViceSindaco di Verbicaro (Cosenza)
Buongiorno a tutti. Quello di cui sono sindaco è un comune montano della Calabria. Noi stiamo lavorando per favorirne lo sviluppo e per far rimanere i giovani in questi contesti, ma tutti i recenti provvedimenti del Governo sembrano andare in un'unica direzione, quella di chiudere i già scarsi servizi presenti.
Lei non crede, signor Presidente, che tutto ciò provochi più guasti anche in termini economici, rispetto alle ipotetiche economie che si presume di ottenere?

Paola Ottaviani
Consigliere comunale di Isola del Liri (Frosinone)
Signor Presidente, vorrei sapere se lei si trova a suo agio nei panni di Presidente della Repubblica, così come costituzionalmente è stabilito ovvero ritiene che il Presidente della Repubblica debba avere diversi, maggiori o minori poteri rispetto a quelli sanciti dalla nostra Carta costituzionale.

Lucia Gallo
Consigliere del Comune di Castelnuovo Bozzente (Como)
Lei oggi ha qui di fronte noi, giovani amministratori, che ci siamo buttati da poco nel mondo della politica e siamo animati da grande entusiasmo, da passione e credo anche da molti sogni da realizzare, però purtroppo dobbiamo confrontarci quasi quotidianamente con una parte consistente dei nostri coetanei, che non riescono a vedere nulla di positivo nell'impegno politico, che non riescono a capire che questo per noi è e uno dei modi più belli per voler bene all'Italia. Noi vorremmo che oggi lei, dall'alto della sua esperienza, ci desse un consiglio anche paterno su come fare per invertire questa rotta di tendenza, su dove trovare il coraggio per dire a voce alta che siamo fieri e orgogliosi di essere amministratori e di spenderci per il nostro Paese.

Alex
Consigliere del Comune di (Valle d'Aosta)
Presidente, il nostro Paese sta vivendo momenti difficili e da più parti vengono auspicate quelle riforme, che possano ridare slancio a livello sia economico, sia sociale. Tra queste una ha un consenso trasversale: il federalismo, che viene promosso e annunciato da entrambi gli schieramenti politici, di cui però fatichiamo vedere un'applicazione concreta, anzi sempre più spesso vediamo disattesi i suoi princìpi fondamentali. Questo scollamento tra riforma necessaria e mancata applicazione per un giovane amministratore, ma anche per un giovane cittadino che ama questo Paese, è disarmante.
È disarmante vedere la continua minaccia di tagli agli enti locali, che sono la forma di governo più vicina al cittadino, come è disarmante vedere i continui attacchi verso le Regioni autonome, che sono il primo, vero laboratorio di federalismo, che non è punitivo o recriminativo verso una parte del Paese, quanto piuttosto è un'attenzione, un impegno verso il territorio. Per noi autonomia vuol dire responsabilità verso il territorio e verso il Paese. La sintesi di queste considerazioni è la seguente: possiamo ancora credere in questo federalismo?

Elisa Diglio
Consigliere del Comune di Monfalcone (Gorizia)
Molte delle nostre domande riguardavano appunto la partecipazione e l'attivismo dei giovani in politica. Secondo lei è possibile incidere sulle difficoltà dei giovani attraverso la scuola? Non potrebbe essere quello il primo e più importante luogo dove crescere cittadini attivi e protagonisti, una sorta di laboratorio della vita che poi i giovani si trovano ad affrontare? Se sì, quali sono gli strumenti che fornirebbe perché ciò si verifichi, di quali cambiamenti ha bisogno la scuola italiana in quest'ottica di partecipazione dei più giovani?

Monica Mene
Consigliere Comune di Valtournanche (Aosta)
Bonjour, Monsieur le President! Bienvenu!
Ognuno di noi partecipanti a questa scuola per la democrazia è stato eletto dopo campagne elettorali fortemente connotate a livello partitico. Una volta poi eletti, non importa se in maggioranza o in minoranza, veniamo invece chiamati a difendere una politica a favore di tutta la cittadinanza, che da quel momento in poi anche noi rappresentiamo.
Sono dunque qui a chiederle, a nome di tutta la Scuola per la democrazia, un consiglio, un suggerimento, per superare al meglio questa fase delicata, difficile, in cui non sempre quello che siamo chiamati a fare corrisponde al programma elettorale con il quale ci siamo candidati.