Maestà,
Signor Presidente della Repubblica del Portogallo,
Signor Presidente del Congresso dei Deputati,
Signor Vice Presidente della Commissione europea,
Signor Presidente del Nueva Economía Fórum,
Signore e Signori,
è un grande privilegio ricevere il Premio Nueva Economía Fórum 2012, del quale sono stati già insigniti i padri costituenti spagnoli, figure e personalità illustri, europee ed internazionali. Sono particolarmente lieto e onorato che mi sia conferito dinanzi a Sua Maestà Juan Carlos, al quale mi lega un caloroso rapporto di amicizia e di stima. E insieme con il Presidente di Nueva Economia, ringrazio in modo particolare il Presidente del Congresso dei Deputati per le generose parole della sua laudatio.
Considero il premio, al di là della mia persona, un tributo all'Italia da parte della amica Spagna, Paese cui ci lega un fitto intreccio di storia, di cultura, di interessi e di visione dell'Europa e del mondo. I nostri rapporti sono ricchi e intensi, ma lo è soprattutto la comprensione reciproca nel difficile frangente che stiamo attraversando: l'ho ritrovata nei colloqui odierni con Sua Maestà il Re e con il Presidente del Governo, il Signor Mariano Rajoy. La vicinanza tra Spagna e Italia fa leva sulle affinità culturali, linguistiche ed emotive, sulle istintive simpatie, sulla comune identità latina e mediterranea. Questa comunanza di sentimenti e d'intenti ci ha portato e radicato saldamente in Europa.
Oggi si parla costantemente di Europa, in Italia come in Spagna. Purtroppo l'avvitamento del ciclo economico ha assorbito e polarizzato il dibattito sulla costruzione europea, facendo della moneta unica un tema di discussione domestica. Se ne sono perlopiù evidenziati frettolosamente difetti e carenze; si è persino ricollegata all'introduzione dell'euro una crisi finanziaria internazionale sistemica che, invece, come sappiamo, è entrata da fuori nel tessuto dell'Unione Europea facendo venire al pettine il nodo del debito sovrano. Ma se quello del debito sovrano è il "primo" problema che dobbiamo affrontare e risolvere, se dobbiamo e vogliamo "salvare l'euro", non dobbiamo commettere l'errore di esaurire l'Europa nella moneta unica, e neppure nella conseguente indispensabile dimensione economica e finanziaria dell'Unione. Certo, abbiamo assoluto bisogno di tornare alla crescita e all'occupazione, certo, ma non dimentichiamo che l'Europa è già molto di più e che ha un ruolo nel mondo al quale non deve sottrarsi. Ciò è tanto più evidente sulle sponde del Mediterraneo nel quale si protendono i nostri due paesi.
La crisi finanziaria vede l'Eurozona al suo epicentro e non ha risparmiato l'Italia, con il suo fardello di indebitamento pubblico. Lo spread, parola anch'essa di uso oramai comune, fluttua penalizzando i titoli italiani per ragioni che ben poco hanno a che vedere con i fondamentali della nostra economia, ma finisce con l'elevare oltre misura il costo della gestione e della riduzione stessa del nostro debito, e anche quindi con il limitare severamente l'accesso al credito da parte delle imprese. Le conseguenze socio-economiche dello tsunami finanziario innescatosi oltre oceano colpiscono in special modo i giovani, all'angosciosa ricerca, troppi di loro, di un posto di lavoro senza il quale è difficile fare progetti e nutrire speranze nel futuro. Questa la prima emergenza alla quale i Governi sono chiamati a rispondere, pur nel rispetto delle strettoie finanziarie che restringono pesantemente i margini per un ricorso a pur valide misure di sostegno della domanda e in primo luogo di rilancio degli investimenti pubblici in settori-chiave. Gli sforzi per favorire l'effettivo avvio di una ripresa economica accomunano la Spagna e l'Italia. Una ripresa che crei occupazione, altrimenti avremo una generazione persa per il mondo del lavoro e della produzione con gravi conseguenze sociali e politiche.
La scelta irrevocabile di rafforzare le basi della moneta unica nasce dalla consapevolezza dei comuni interessi e del comune destino dei Paesi europei. Non si torna indietro, quindi non resta che andare avanti e portare avanti tutti i provvedimenti necessari - compresi ulteriori trasferimenti di sovranità - per consolidare l'Unione economica e monetaria. Abbiamo così messo a tacere, o quanto meno fortemente attenuato, le voci che irresponsabilmente profetizzavano la fatale implosione dell'euro. Non si rinuncia a una tappa così significativa e avanzata del processo di integrazione che le nazioni europee hanno laboriosamente intrapreso, fianco a fianco, negli ultimi sessant'anni. Ma soprattutto non si può discettare a cuor leggero sulle disastrose ricadute a causa di una disintegrazione dell'euro, sull'intero sistema economico europeo e mondiale. Perché, non facciamoci illusioni: non ci sarebbero, nel caso di una implosione dell'euro, né vinti né vincitori; solo economie prostrate, tensioni commerciali acute, fenomeni d'impoverimento e fortissimi disagi sociali - una recessione mondiale in definitiva il cui spettro non può non suscitare timori anche a Londra, a New York, a Shanghai.
L'interesse alla salvaguardia della moneta unica non è esclusivo dell'Unione e dell'Eurozona, ma la responsabilità delle misure da prendere ricade su noi europei. Misure che stiamo prendendo, soprattutto nel senso di una convergenza delle politiche fiscali e di bilancio, di una unione bancaria e di un'efficace governance economica comune, e che comportano significativi trasferimenti di sovranità. E' questa una risposta realistica e lungimirante al tempo stesso, a esigenze scottanti scaturite dalla crisi di questi due anni. E' lecito domandarsi in che direzione ci si stia muovendo e ci si debba muovere in una prospettiva più ampia.
Le vicissitudini della crisi finanziaria - al di là di incertezze e ritardi nelle reazioni delle istituzioni europee - hanno rivelato impietosamente quello che mancava sia sotto il profilo istituzionale che decisionale. Da una parte la crisi denunciava un bisogno di Europa, dall'altra un'insufficienza di Europa. Concludere, come molti di noi hanno fatto, che ci vuole "più Europa" significa semplicemente trarne in modo serio le conseguenze. E, se questa sarà la lezione finalmente appresa, tensioni e sacrifici non saranno stati invano.
Come dice Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, "integrazione economica e integrazione politica possono andare in parallelo". L'Unione politica non costituisce più un tabù. Il tema va affrontato coraggiosamente, sia pure senza precipitazioni improvvide. Non si tratta dunque di mettere mano ex abrupto a una revisione organica dei Trattati. In termini istituzionali, occorre procedere per stadi, distinguendo tra innovazioni attuabili sulla base del Trattato di Lisbona, emendamenti circoscritti al Trattato che possono essere introdotti anche con procedure di revisione semplificata, e quindi riforma organica dei Trattati che abbracci il nodo delle competenze e passi attraverso la convocazione di una nuova Convenzione.
Condivido e apprezzo il levarsi di forti voci favorevoli a avanzare nel processo d'integrazione, a compiere quell'ulteriore salto che le circostanze impedirono al momento di concludere il negoziato per il Trattato di Lisbona. È quel che il Presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, ha chiamato nel suo recente discorso sullo stato dell'Unione la necessità di "un patto decisivo per l'Europa". Parte integrante di esso deve considerarsi il rilancio della politica estera e di sicurezza comune, rimasta gravemente in ombra in questo ultimo periodo dominato - in seno all'Unione - da una pesante sindrome di "inward looking".
L'Europa non è solo la migliore riuscita di un modello di integrazione economica. E' il prototipo da imitare per le nascenti istanze di cooperazione regionale in America Latina e in Africa. Sul nostro continente, la lista di attesa degli Stati candidati non cessa di allungarsi. Al tempo stesso l'Unione Europea stenta però ad affermarsi come protagonista nelle relazioni internazionali, pur avendone statura, risorse e capacità.
Il peso dell'Europa nel mondo dipende dalla sua unità. E' sempre stato così, ma oggi l'alternativa è diventata radicale, fra il contare come Europa o lo scadere nella marginalizzazione, se non irrilevanza, dei singoli suoi Stati membri, persino dei più grandi e più forti. Le sfide che ci attendono sono molte e vanno al di là della portata nazionale: dalla globalizzazione ai cambiamenti climatici, dalle tensioni sul fronte dell'energia all'incerto riassestamento degli equilibri geopolitici, dallo sviluppo sostenibile al contrasto delle minacce e incognite del terrorismo internazionale.
È senz'altro vero che ci tengono insieme una comunità di valori ed egualmente una capacità di valorizzare le nostre diversità, che fanno dell'Europa una realtà unica sulla scena mondiale; è vero che abbiamo sviluppato un originale modello economico-sociale che amalgama libertà e solidarietà. Ma, come Europa, siamo stati troppo spesso assenti, divisi o esitanti nell'arena internazionale. Abbiamo regolarmente dato la precedenza alle problematiche interne rispetto a quelle comuni, al di la dei confini nazionali.
Per Prodotto lordo, popolazione, capacità militari e rete d'interessi strategici e economici, l'Europa ha tutti i numeri per essere un attore globale nelle relazioni internazionali. Nulla le impedirebbe di competere e cooperare validamente con Stati Uniti, Cina, Russia. Purché unita, purché sempre più decisamente ed efficacemente unita.
La nostra parte la dobbiamo fare innanzitutto nella parte del mondo a noi prossima. Ce lo chiedono continuamente gli interlocutori balcanici e mediorientali. Nel nostro "estero vicino" l'assenza, o la mancanza di iniziative da parte dell'Europa, è imperdonabile.
La trasformazione in corso nel Mediterraneo arabo può cambiare radicalmente la fisionomia del Nord Africa e del Medio Oriente. Parliamo dell'intero limes meridionale e sud-orientale dell'Unione, fonte di sfide e grandi potenzialità, di forniture essenziali, minacce alla sicurezza, movimenti di popolazione e insieme scambi e traffici fecondi. Italia e Spagna condividono il Mediterraneo con i paesi della sponda Sud da sempre.
Sulla sponda Sud il cambiamento è in corso. L'assestamento richiederà tempi lunghi. È passato un anno da quando in Tunisia la rivolta del pane ha dato il via ad uno straordinario sussulto democratico, subito propagatosi in altre parti del Maghreb. Il 17 maggio scorso, a Tunisi, innanzi all'Assemblea Nazionale Costituente, ho ricordato come l'anelito di libertà che si leva da quelle sponde non possa essere soffocato e represso con le violenze poliziesche e con le armi. In Tunisia la voce levatasi dal popolo è stata ascoltata, e si stanno cercando soluzioni costituzionali condivise. Abbiamo seguito da vicino le caute riforme avviate in Algeria e Marocco. In Egitto, la rifondazione su nuove basi dello Stato e il processo costituente rappresentano un cammino coraggioso, ma non privo di insidie. Con il sostegno della coalizione internazionale alla quale hanno preso parte anche l'Italia e la Spagna, il popolo libico ha ritrovato la libertà e, faticosamente, sta ricostruendo uno Stato sulle macerie lasciate da Gheddafi. L'Italia è al suo fianco : il nostro Ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Buccino, già mio diretto e stimato collaboratore, è un valido rappresentante del nostro tradizionale impegno sul piano diplomatico. Ma desidero ricordare l'Ambasciatore statunitense Chris Stevens, raffinato diplomatico e uomo di pace, ucciso a Bengasi da frange estremiste e terroriste che cercano di deragliare la nuova Libia. Noi diciamo: non ci riusciranno.
La Siria rappresenta oggi la pagina più dolorosa. Le atrocità di Assad hanno portato il paese alla guerra civile con conseguenze umanitarie devastanti. La comunità internazionale è stata finora incapace di arrestarla. Lo scenario è aggravato dai rischi di instabilità regionale e di contagio dei paesi vicini - penso in particolare al Libano, dove anche l'Italia è attivamente partecipe in una missione internazionale di stabilizzazione e di pace.
Questa situazione chiama in causa direttamente l'Europa. Il Nord Africa è fragile e l'Europa ha la responsabilità di sostenerne il deciso avanzamento democratico, la costruzione dello Stato di diritto, la tutela dei diritti umani e delle minoranze, le libertà fondamentali compresa quella di culto. E' preciso interesse strategico del nostro continente promuovere il progresso civile e sociale dei 160 milioni di persone che insistono tra le Colonne d'Ercole e il Mar Nero.
L'Italia, la Spagna e il Portogallo, la Francia, l'insieme dei Paesi con radici nel Mediterraneo sono in prima linea. Spetta a noi persuadere quei partners dell'Unione Europea alla cui politica estera, distratta da altri orizzonti, sfugge l'urgenza che viene da Sud e sollecitare le Istituzioni comuni, per far compiere un reale salto di qualità alla politica dell'Europa sul Mediterraneo. L'Unione Europea ha risposto con grande tempismo all'insorgere delle "primavere arabe". Il varo della Politica Europea di Vicinato, con una miscela di aiuti e di condizionalità sul piano democratico, promette maggior accesso al nostro mercato e maggiore mobilità per le persone. Ed è uno sforzo encomiabile quello dell'Unione Europea di adattare lo strumento della Politica di Vicinato, istituito nel lontano 2004 a beneficio di Paesi assai eterogenei che vanno dall'Azerbaijan al Marocco, di adeguarlo alle nuove esigenze mediterranee.
Ma basta a venire incontro a un rinnovamento epocale di quelle dimensioni? Un rinnovato impegno europeo per il Mediterraneo, per farne un'area di pace, democrazia e benessere, non è solo questione di denaro. Gli aiuti economici rappresentano senza dubbio un tassello importante del mosaico, per dare risposte immediate alle attese più urgenti dei Paesi della sponda sudorientale, ad esempio nel campo della sicurezza interna. Ritengo che in Europa ci siano ancora ampi margini per sfruttare pienamente le potenzialità del Trattato di Lisbona. Penso, a titolo di esempio, al ruolo del Servizio europeo di azione esterna, forte di un'autorevolezza già ampiamente riconosciutagli dai Paesi del Mediterraneo meridionale grazie anche all'impegno di figure di spicco come il Rappresentante speciale dell'Unione, Bernardino León Gross. Dobbiamo rafforzare le strutture istituzionali di quei Paesi e assicurare incentivi specifici per i Governi che realizzino le riforme democratiche. Al fondo occorre una visione di cooperazione regionale strategica fra i Paesi del Mediterraneo meridionale e orientale. Più stretti legami tra Est e Ovest del Bacino, oltre che tra Nord e Sud, è garanzia per un'area di pace e di maggior benessere.
Signore e Signori,
le fortune dell'Europa conoscono storicamente alti e bassi insieme con quelle del Mediterraneo. Spagna, Italia e Portogallo lo sanno bene. Lo sanno i nostri porti, le nostre grandi città cosmopolite. Questa è la nostra grande occasione per aiutare i popoli amici a Sud e a Est del Mediterraneo nel faticoso percorso che li attende. Esitazione e ritardi in questa fase cruciale sarebbero percepiti come indifferenza e diniego di aiuto. Puntiamo invece a fare dei Paesi della sponda Sud veri e propri partner senza abdicare ai nostri valori universali di libertà e democrazia, ma senza imporli, nella consapevolezza che dalle "primavere" possano sbocciare modelli anche diversi dai nostri.
In definitiva, l'uscita dalla crisi economica e occupazionale che in questo momento ci attanaglia passa anche attraverso il rilancio della proiezione esterna delle nostre economie. Per paesi come Spagna, Italia e Portogallo da dove cominciare, se non dal Mediterraneo?