Assisi 05/10/2012

Intevento del Presidente Napolitano all'incontro "Dio, questo sconosciuto. Dialogo tra credenti e non credenti"

E' da lungo tempo che Assisi è divenuta anche per me luogo-simbolo del dialogo e della pace, offrendomi occasioni d'incontro che ho sempre accolto ed accolgo quasi per rispondere a un intimo bisogno di raccoglimento, sfuggendo alla pressione incessante di doveri e di assilli da cui si rischia di non riuscire a sollevare lo sguardo e la mente.

Pace tra i popoli, pace come coesione solidale in seno alla società, dialogo interreligioso, dialogo tra credenti e non credenti. In questo spirito, nella Assisi di Francesco, nel moderno Cortile dei Gentili, mi sento di poter dare il contributo di riflessione che sono stato invitato a offrire all'attenzione del Cardinal Ravasi - in un rapporto di empatia come quello già stabilitosi tra noi - e all'attenzione di voi tutti.

Nel dialogo tra credenti e non credenti - sempre prezioso in vista del bene comune da perseguire in questa così travagliata nostra Italia - io rappresento, nella funzione che attualmente esercito al vertice delle istituzioni, gli uni e gli altri come cittadini, come italiani, e tendo ad unirli. A ciò corrisponde il mio mandato, così come lo interpreto e lo vivo.

E' dalla schiettezza del dialogo, e da un suo esito fruttuoso, che possono venire stimoli e sostegni nuovi per una ripresa di slancio ideale e di senso morale, della quale ha acuto bisogno oggi la nostra comunità nazionale come in pochi altri momenti da quando ha ritrovato, con la democrazia, la sua libertà. Ed è giusto che il dialogo affronti anche temi complessi e ardui attorno ai quali i punti di vista dei credenti e dei non credenti possono presentare più difficoltà ad incontrarsi.

A me naturalmente sarà consentito di esprimermi qui a titolo più strettamente personale, richiamando espressioni di cultura e di pensiero che ho trovato, in diversi periodi della mia vita, più congeniali alla mia ricerca di risposte.

Voi conoscete il mio percorso e il suo punto di partenza, da giovane che si guardava attorno e si apriva al futuro negli anni '40 dello scorso secolo, e non vi stupirete quindi dell'approccio storico-politico di questo mio intervento.

Ricomincio da un dato fondamentale che è questo : l'Italia risorse, sulle rovine del fascismo, a libertà e democrazia in uno straordinario moto di avvicinamento tra ispirazioni ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili, ma in effetti già incontratesi nel crogiuolo dell'antifascismo. E così nel porre le basi - principi e regole condivisibili - di una nuova convivenza e crescita civile e sociale, nessun muro tra posizioni dei credenti e dei non credenti sbarrò la strada alle forze politiche rappresentative delle une e delle altre : come testimonia la storia dell'Assemblea Costituente. Ciò fu possibile perché si attinse - mi approprio di un'espressione del Cardinal Ravasi - a "un'antropologia di base", a valori da essa ricavabili, e nello stesso tempo si attinse a un'evoluzione convergente di molteplici scuole di pensiero e dottrine politiche.

Comune divenne - nel serissimo impegno di elaborazione e di confronto che ancora ci rende ammirati e riconoscenti verso l'opera dei nostri padri costituenti - il valore, e l'obbiettivo, del "pieno sviluppo della persona umana". Ad esso, e ai "diritti inviolabili dell'uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità", si ancorò l'edificio della Costituzione repubblicana.

Eloquente sintesi di quell'evoluzione convergente di cui ho detto, resta questa pagina di Leopoldo Elia: "Si ritiene" (il riferimento è alla posizione che emerge nell'Assemblea Costituente) "di poter sostituire all'homo oeconomicus dell'economia liberale una figura di uomo, la persona umana appunto, qualificata dalla sua disponibilità a solidarizzare con le altre persone per il bene della comunità e, soprattutto, della comunità nazionale. A questo fine è abbastanza indifferente che all'atteggiamento personalista si pervenga partendo da basi dottrinali cattoliche, dal liberal-socialismo o da una cultura liberal-democratica più matura o dal ripensamento delle esperienze del New Deal e del movimento laburista nordeuropeo : ciò che conta è l'affermarsi di una ideologia costituente in nuce, che trova maggiori consensi nella cultura cattolica ed in alcuni ambienti della cultura laica, ma che si presenta con formulazioni tali da valorizzare punti di convergenza, e non di antitesi, con la cultura della sinistra marxista".

Ho voluto citare Leopoldo Elia per mettere in luce convergenze ideali, di principio, emerse e affinatesi nel dibattito del 1946-47. Perché invece tra le convergenze di grande significato di cui è ricca la storia dell'Assemblea Costituente, si ricorda soprattutto quella, essenzialmente politica, dell'art. 7. Ancora a proposito di valori fondamentali, si parlò, ad esempio, di incontro tra due solidarismi, quello cristiano e quello socialista.
Peraltro, a mio avviso, va anche ricordato, e invece raramente lo si fa, un momento di improvvisa tensione che insorse a conclusione del lungo processo di elaborazione della Carta Costituzionale. Quando si era ormai concluso l'esame di tutti gli articoli e non restava che procedere all'approvazione finale della Carta, l'on. La Pira chiese di parlare - era il 22 dicembre del 1947 - per proporre che il testo fosse preceduto da "una brevissima formula" - egli disse - "di natura spirituale": "In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione".

Apparve subito chiaro che la proposta non avrebbe ottenuto il consenso, immaginato o sperato da La Pira, della grande maggioranza, se non dell'unanimità, dell'Assemblea. Lo fecero intendere gli interventi dell'on. Togliatti e dell'on. Calamandrei, se pur diversamente motivati. A sua volta, Francesco Saverio Nitti rilevò con accenti accorati il delinearsi di una divisione profonda : "Perché ci dovremmo dividere sul nome di Dio? Il nome di Dio è troppo grande e le nostre contese sono troppo piccole". L'on. La Pira - confermando la nobiltà della sua iniziativa, d'altronde tutt'affatto personale - comprese che potevano prodursi "motivi di screzio profondo, di disunione fra gli animi", aggiunse che ciò sarebbe andato "contro il punto di vista dal quale era partito", e finì per desistere.

Colpisce, nel rileggerlo, l'intervento che pronunciò, nel corso di quel breve dibattito, Concetto Marchesi, illustre deputato del PCI. Togliatti aveva - intervenendo prima di lui - parlato, in termini che possiamo definire del tutto inappropriati, di un "solco ideologico" che col voto sulla formula La Pira si sarebbe scavato, in quanto essa "si richiamava a determinate ideologie". Furono queste, invece, le parole di Marchesi: "Ho sempre respinto nella mia coscienza la ipotesi atea, che Dio sia una ideologia di classe. Dio è nel mistero del mondo e delle anime umane. E' nella luce della rivelazione per chi crede ; nell'inconoscibile e nell'ignoto per chi non è stato toccato da questo lume di grazia. Ho detto testé al collega La Pira che questo mistero, questo supremo mistero dell'universo non può essere risolto in un articolo della Costituzione, in un articolo di Costituzione, che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno".

Quando, dieci anni dopo, Marchesi morì e fu commemorato alla Camera - io ero allora già deputato - mi colpì il fatto che proprio Togliatti riconoscesse e sottolineasse che Marchesi "non negava il mistero", tanto da affermare : "oltre la realtà tangibile e sperimentabile, c'è l'ignoto e l'inconoscibile". In realtà, la professione di marxismo che pure veniva da Marchesi era mediata dal suo umanesimo, di sommo interprete della classicità latina e di finissimo studioso, tra l'altro e in modo particolare, del pensiero di Seneca, della sua dottrina morale e del suo rapporto col Cristianesimo.

Ma è anche alla luce di altre testimonianze di pensiero laico che il riferimento alla dimensione del mistero mi è parso, sempre di più, collocarsi su una linea di confine nella distinzione e nel dialogo tra credenti e non credenti. Le testimonianze si trovano talvolta in scritti di particolare intimità, piuttosto che in trattazioni sistematiche, di certi autori. Penso ad esempio alle parole delle ultime volontà di Norberto Bobbio, scritte nel 1999 e rese pubbliche nel gennaio del 2004 all'indomani della sua morte : "Vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa si. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare sino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi."

Riconoscimento, dunque, della dimensione del mistero, e dell'inadeguatezza della ragione a penetrarlo sino in fondo : vedo qui un senso del limite che aiuta nell'intento - dichiarato da Benedetto XVI nel complesso e profondo discorso di Regensburg - di "superare la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell'esperimento", di "dischiudere ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza", così che possano "ragione e fede ritrovarsi unite in modo nuovo".

Tornando a quelle scarne, così essenziali "ultime volontà" di Bobbio, possiamo cogliere anche un altro spunto che ci interessa : il modo in cui personalità portatrici di una visione laica si sono venute autodefinendo nel rapporto con Dio e con la fede. "Né ateo né agnostico", dice di sé il Bobbio che ho citato. E mi torna alla mente - per la particolare consuetudine che ho da lungo tempo con l'opera di questo grande della cultura e letteratura europea del Novecento - il modo in cui si definisce Thomas Mann nello scrivere del suo incontro a Roma, nel 1953, con Pio XII : "Il noncredente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio XII e baciò l'anello del Pescatore, poiché non era ad un uomo e ad un uomo politico che io mi genuflettevo, bensì ad un idolo candido, il quale, circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con mitezza un poco sofferente due millenni di storia occidentale".

"Il noncredente ed erede della cultura protestate", già insuperato narratore della saga biblica di Giuseppe e dei suoi fratelli, seppe rendere omaggio, con alto senso storico, alla figura del Pontefice romano.

Singolare appare invece per semplicità colloquiale, anche se letterariamente impreziosita, l'invocazione di Dio da parte del più eminente pensatore laico italiano dello scorso secolo, Benedetto Croce, che in una lettera personale del 1949 scrisse ad Alcide De Gasperi : "Che Dio ti aiuti (perché anch'io credo, a modo mio, a quel che a tutti è Giove, come diceva Torquato Tasso): che Dio ti aiuti nella buona volontà di servire l'Italia e di proteggere la sorte pericolante della civiltà, laica o non laica che sia". Non deve scandalizzare quel "credo a modo mio" del Croce: ne coglierei il senso di misura e di rispetto che ha caratterizzato l'atteggiamento di personalità tra le maggiori del mondo laico italiano verso la sfera della fede e il fatto religioso.

E come non cogliere poi la religiosità del "Soliloquio" che Croce pubblicò un anno prima di lasciarci?
"La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il còmpito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare.

Vero è che la preparazione della morte è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio ; ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora accade che c'imponga una pratica inconsueta. Le anime pie di solito non la pensano così, e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l'ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l'espressione ultima di questo egoismo."

Come si vede, è in special modo in riflessioni sul tema del rapporto tra vita e morte, o sul tema dell'oltrevita, che riaffiorano tra i laici atteggiamenti problematici. Così ancora Bobbio, nel suo "De senectute", scrive :
"Quando dico che non credo alla seconda vita ... non intendo affermare nulla di perentorio. Voglio dire soltanto che mi sono sempre parse più convincenti le ragioni del dubbio che non quelle della certezza."

Quale considerazione traggo in definitiva da questa mia rapida perlustrazione? La considerazione di un senso del limite e di un'apertura della nostra tradizione laica, che hanno favorito in Italia, più che in altri paesi dell'Europa occidentale, un clima di dialogo e di comprensione tra credenti e non credenti. Si tratta, naturalmente, anche di un fattore concorrente all'evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiesa nel quadro di riferimento offerto dalla Costituzione repubblicana. L'impegno - sancito nel 1984 nell'Accordo di revisione del Concordato - "alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del paese", ha conosciuto sviluppi concreti, in un'atmosfera fiduciosa, ed è destinato ad assumere oggi contenuti nuovi, a rispondere a nuove sfide.

La società italiana sta attraversando una fase di profonda incertezza e inquietudine, nella quale forse sarebbe da rivisitare e più fortemente affermare la nozione di "bene comune" o quella di "interesse generale". E ciò non solo per proseguire, rafforzandola, la collaborazione tra Stato e Chiesa nell'ottica dell'Accordo del 1984, ma per suscitare tra gli italiani una più diffusa presa di coscienza e mobilitazione morale e civile. La profonda incertezza e inquietudine di cui dicevo nasce certamente dall'asprezza delle prove cui l'Italia, al pari di altri paesi, è sottoposta per effetto della crisi finanziaria ed economica nel contesto di un'Europa non abbastanza unita, solidale e lungimirante. E quel che in Italia acuisce l'incertezza, e produce grave disorientamento, è l'inadeguatezza del quadro politico a offrire punti di riferimento e prospettive, percorso com'è da spinte centrifughe e tendenze alla frammentazione. Per non parlare dei fenomeni di degrado del costume e di scivolamento nell'illegalità che, insieme con annose inefficienze istituzionali e amministrative, provocano un fuorviante rifiuto della politica.

Quel che rischia di perdersi è proprio il senso del "bene comune", dell'"interesse generale", che dovrebbe spingere a una larghissima assunzione di responsabilità, ad ogni livello della società, in funzione dei cambiamenti divenuti indispensabili non solo nel modo di essere delle istituzioni ma nei comportamenti individuali e collettivi, nei modi di concepire benessere e progresso e di cooperare all'avvio di un nuovo sviluppo del paese nel quadro dell'Europa unita, uno sviluppo sostenibile da tutti i punti di vista.

Tutto ciò richiede una straordinaria concentrazione e convergenza di sforzi, ad opera di credenti e non credenti - come accadde nel clima dell'Assemblea Costituente. Sforzi da volgere soprattutto a rianimare senso dell'etica e del dovere, a diffondere una nuova consapevolezza dei valori spirituali, dei doni della cultura, dei benefizi della solidarietà, che soli possono elevare la condizione umana. Concentrazione e convergenza di sforzi che rischierebbe di essere resa più ardua, se non compromessa, dall'insorgere di contrapposizioni tra forze che si ponessero come rappresentanti sul terreno politico dei credenti o degli osservanti, da un lato, dei non credenti o non osservanti dall'altro, in particolare su questioni controverse e delicate inerenti a scelte soggettive delle persone e dei rispettivi nuclei famigliari. Mi auguro perciò sia possibile affrontare tali questioni fuori di antitetiche rigidità pregiudiziali e anche di forzose strettoie normative. Abbiamo bisogno in tutti i campi di apertura, di reciproco ascolto e comprensione, di dialogo, di avvicinamento e unità nella diversità. Abbiamo bisogno, cioè, dello spirito di Assisi.


FERRUCCIO DE BORTOLI


Abbiamo ascoltato due straordinarie testimonianze che danno il senso a questo «Cortile dei Gentili». Prendo spunto da questi vostri due interventi, cercando soprattutto di interpretare l'emozione che hanno suscitato. Presidente, lei ha parlato dell'importanza del dialogo tra laici e cattolici, della ricerca dell'interesse comune. Perché è così difficile nel nostro Paese la ricerca e la tutela del bene comune e perché l'interesse generale abbiamo qualche volta la sensazione che interessi poco? Perché ci siamo ridotti in questo modo e che cosa possiamo fare?

GIORGIO NAPOLITANO

È accaduto che si sia diffuso un equivoco le cui implicazioni politiche sono state e sono fuorvianti: e cioè che il perseguire il bene comune, l'interesse generale del Paese, comporti assenza di dibattito, scomparsa delle diversità. Ora, noi sappiamo benissimo che una società democratica si nutre di libera dialettica e anche di non distruttiva conflittualità. Ma ha finito per pesare l'idea che in politica si è sempre da una parte o dall'altra, e che il solo intravedere un ponte tra le opposte posizioni e il tentare di attraversarlo significa rinunciare alle proprie posizioni, alle proprie convinzioni, alle proprie prospettive. Ma invece farsi carico del bene comune, dell'interesse generale vuol dire individuare valori e obbiettivi essenziali che sono comuni, «indivisibili»: per qualsiasi parte della società o dell'universo politico.

Ben più costruttivo è lo sforzo che si compie in altri Paesi. Anche se non vorrei esagerare nell'idoleggiare situazioni diverse dalla nostra - non so se, poniamo, in questo momento sia per noi un buon esempio la campagna presidenziale negli Stati Uniti -, ma certo in Stati europei in cui pure ci sono forti contrapposizioni sul piano politico-elettorale tra schieramenti concorrenti, e la legge della democrazia si esprime nell'alternanza tra forze politiche, o coalizioni di forze politiche, portatrici di diversi interessi e di diversi ideali; al di là, tuttavia, della materia del contendere - e ce n'è sempre (non credo ci si debba mai preoccupare che in Italia scompaia) - spicca qualcosa di non «contendibile», ovvero un impegno convergente a individuare interessi vitali per il futuro della nostra società. Lei, eminenza Ravasi, diceva: «Si è perso il senso del futuro, quasi non se ne parla più». In effetti, per molti motivi, non solo interni all'Italia - per esempio per il modo in cui l'Europa dei governi ha affrontato e sta affrontando la crisi - c'è, come dire, un rimpicciolirsi dell'orizzonte - anche delle reazioni dei singoli e dei gruppi sociali - di fronte a quel che accade.

Se non c'è una prospettiva di più lungo termine (i francesi hanno coniato polemicamente l'espressione court-termisme), se nell'approccio ai problemi non si va al di là di un orizzonte di breve termine, anche le reazioni ai necessari cambiamenti diventano esasperate e spesso puramente difensive, persino anacronistiche. Invece, se si allunga lo sguardo si possono trovare soluzioni, in parte naturalmente diversificate a seconda dei punti di vista e degli interessi di cui si è portatori, ma comprensive di un fortissimo nucleo comune.

L'individuazione di tale nucleo comune è diventata da noi un'impresa quasi impossibile. Ma dobbiamo ripartire di là e, per giungere a ritrovare quel nucleo comune, dobbiamo ancorarci a grandi valori, dobbiamo ancorarci precisamente a quella «antropologia umana» di base, globale di cui parlava il cardinale Ravasi. Altrimenti saremo sempre costretti in logiche di contrapposizione sterile, di reciproca delegittimazione e negazione. E ciò veramente sta diventando soffocante per il nostro Paese, per la nostra società.

FERRUCCIO DE BORTOLI


Vorrei tornare al titolo del nostro incontro, Dio, questo sconosciuto, e farvi una domanda più personale. Comincerei dal cardinale Ravasi, chiedendogli se nella sua Fede c'è stato qualche dubbio e se c'è stato qualche momento in cui la Fede ha vacillato.

GIORGIO NAPOLITANO

È più facile dire, come notava Bobbio, del dubbio che aveva attraversato il suo porsi il problema della trascendenza. Io credo di poter raccontare quel che è accaduto probabilmente a tanti di noi, e non necessariamente solo della mia generazione. Personalmente, ho avuto un'educazione religiosa, ho attraversato cioè tutti gli anni dell'adolescenza nei sacramenti e nei riti della religione cattolica, che era la religione di mia madre e che era la religione che si insegnava a scuola. Ma mi sono distaccato, come un po' diceva Bobbio, da una pratica che di per sé non garantiva la risposta agli interrogativi «ultimi», e mi sono calato interamente in un'altra dimensione di vita - politica, culturale, istituzionale -, che prescindeva dal porsi quelle domande. La questione vera è proprio il non avere avvertito l'urgenza di quegli interrogativi anche per un lunghissimo periodo.

Poi ho ricevuto stimoli da incontri e conversazioni con personalità di autentica fede. Ricordo per esempio l'impressione che mi fece La Pira una volta che avemmo occasione di fare un lungo viaggio insieme: andammo a Stoccolma per una conferenza internazionale sulla pace (lui era uomo di questi grandi eventi), e mi parlò in modo eloquente della sua visione della Chiesa: quello che lo aveva affascinato della Chiesa era - mi disse - la Chiesa come istituzione (d'altronde La Pira era un grande istituzionalista per cultura giuridica).

Oppure potrei ricordare stimoli che mi sono venuti da incontri culturali: così quando ho «scoperto» - o letto meglio in età matura - Pascal.

Qualche volta mi verrebbe voglia di dire: adesso per un po' di anni coltivo gli «interrogativi supremi», mi dedico ad approfondirli. In effetti, ritorno su un passaggio di Marchesi che ho citato: ci si può chiudere nella convinzione, o constatazione, che non si è stati toccati da «un lume di grazia», e chiudere il discorso. E invece il discorso non dovrebbe finire lì.