Berlino 27/11/2007

Lectio Magistralis del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all'Università Humboldt dal tema:"Sciogliere l'antico nodo di contrastanti visioni del progetto europeo. Far emergere una nuova volontà politica comune"

LECTIO MAGISTRALIS DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
UNIVERSITÀ HUMBOLDT - BERLINO
27 NOVEMBRE 2007

"Sciogliere l'antico nodo di contrastanti visioni del progetto europeo. Far emergere una nuova volontà politica comune."

1. UNA PROFESSIONE DI FEDE EUROPEA.

E' per me motivo di particolare soddisfazione poter prendere la parola in questa storica Università, che è stata in anni recenti sede privilegiata di analisi e messaggi importanti sui temi della costruzione e dell'avvenire dell'Europa.

Nell'invito che mi è stato rivolto ho visto un segno di riconoscimento per il ruolo svolto dall'Italia, a partire dal lontano 1950, nel lungo percorso dell'integrazione europea, e ancor più un segno di attenzione per il contributo che essa può continuare a offrire in una nuova fase di riflessione e di impegno. Ebbene, desidero subito raccogliere questa attenzione e questa aspettativa : l'Italia guarda sempre all'Europa come all'orizzonte naturale del suo sviluppo e della sua presenza nel mondo. Lo dico sapendo di rappresentare - nella mia attuale responsabilità istituzionale - sentimenti e orientamenti radicati e diffusi nella comunità nazionale.

Aggiungo tuttavia che credo di potermi rivolgere a voi - in questo che è un luogo di studio e di libero confronto - con argomenti ed accenti meno ufficiali e diplomatici, più strettamente e schiettamente personali. Lasciate cioè che vi parli, più che da capo di Stato, da convinto partigiano della causa europea.

Spero che non stupisca questa professione di fede europeistica e che se ne comprenda il senso. Temo che si sia da qualche tempo finito per smarrire lo slancio che aveva caratterizzato all'inizio la costruzione europea e aveva successivamente consentito di superarne le difficoltà e i momenti di crisi. Quello slancio non può essere confuso con una banale proclamazione retorica ; esso era fatto di profonda consapevolezza delle responsabilità dell'Europa, di orgogliosa rivendicazione del suo ruolo, di lucido riconoscimento dei suoi errori e di visione lungimirante della prospettiva nuova da aprire e perseguire.

Oggi invece troppi uomini politici, perfino leader di paesi membri dell'Unione, sembrano timorosi di richiamarsi agli ideali della Dichiarazione Schuman, allo spirito se non alla lettera dell'appello a una Federazione europea, a quegli Stati Uniti d'Europa vagheggiati da pensatori e statisti illuminati all'indomani della seconda guerra mondiale e già in un passato più lontano.

Ebbene, è importante non cancellare quello spirito delle origini dell'integrazione europea ; e ancor più importante è mostrare legittimo orgoglio per l'impresa che ne è scaturita, per il progetto politico più innovativo e di maggior successo concreto che sia stato concepito e portato avanti nel mondo nella seconda metà del Ventesimo secolo. Molto dovrebbe d'altronde dirci il fatto che in altri continenti si annuncino obbiettivi di integrazione regionale e ci si ispiri al modello europeo.

2. LO "SPIRITO DELLE ORIGINI" E LA SUA PERSISTENTE VITALITÀ.

Il percorso che qui da noi si è seguito in oltre cinquant'anni non è stato né facile né lineare ; ha conosciuto battute d'arresto e sempre nuovi sviluppi ; si è in alcuni periodi proceduto più speditamente e in altri meno. Gli storici hanno parlato a ragione dell' "avventura europea" : ma è stata un' "avventura" vissuta con saggezza e con tenacia. E l'essenziale è stato preservare il filo conduttore di quella che fu chiamata l' "invenzione comunitaria" : la scelta, cioè, di costruire un'Europa unita attraverso la creazione e il consolidamento di istituzioni nuove, cui affidare l'inedito compito di gestire poteri di sovranità condivisa e di realizzare - con l'attiva partecipazione degli Stati nazionali - progetti comuni di sviluppo delle economie e delle società dapprima in sei paesi e poi via via negli altri che si associarono a quella scelta.

Alla base dell' "invenzione comunitaria" vi fu naturalmente la convinzione di rappresentare un universo di valori e di esperienze storiche : né più né meno, cioè, che la civiltà europea, nelle sue più alte espressioni e conquiste, fino a quelle dello Stato di diritto liberale e della democrazia rappresentativa. Non c'era dubbio, in partenza, sulla validità obbiettiva di riferimenti come quelli a una comune cultura e identità europea né sulla missione cui il progetto dell'integrazione era rivolto : esprimere - in un ambito potenzialmente sempre più largo - l'autocoscienza europea.

E' questo il nucleo di convinzioni fondamentali da tradurre oggi in quella nuova, comune volontà politica che costituisce la vera condizione e garanzia per un effettivo consolidamento e avanzamento dell'Unione, appena uscita da una difficile e non breve impasse istituzionale. Una volontà politica tale da superare fattori e rischi di crisi più profonda del processo di integrazione.

Se ho voluto richiamare nella sua persistente vitalità lo spirito delle origini di quel processo, non è stato certo perché non sia pienamente consapevole di tutto quel che è mutato e deve mutare. Molti traguardi sono stati raggiunti, altri obbiettivi sono emersi e vanno messi a fuoco ; le motivazioni proprie di periodi storici precedenti vanno integrate con le ragioni di unità dettate dal nuovo contesto mondiale. E si tratta di ragioni forti, che premono con tutta evidenza sollecitandoci a proseguire sulla strada intrapresa.

L'accento va dunque posto in via preliminare sulla valorizzazione dei traguardi già raggiunti, che sembrano quasi assimilati, dalle giovani generazioni, come un "dono della provvidenza" anziché come il frutto di un progetto e di un metodo fondati sulla comune volontà politica che i leader e le istituzioni rappresentative di un numero crescente di paesi europei hanno saputo esprimere. Nello stesso tempo occorre richiamare con forza l'attenzione sulle sfide di oggi, cui l'Europa è chiamata a rispondere. Esse vengono dalle trasformazioni e dalle tensioni della realtà mondiale. I responsabili politici degli Stati membri non solo conoscono il nome e l'oggetto di queste nuove sfide, ma ne riconoscono la portata, che va al di là delle possibilità di intervento e di risposta di cui dispongono i singoli Stati nazionali. Ma - ecco il punto - da tale riconoscimento si resiste o si stenta a trarre le necessarie conseguenze, per difetto di comune volontà politica e per antiche e nuove reticenze su aspetti essenziali del progetto europeo.

3. IL RISULTATO DEL CONSIGLIO EUROPEO DI GIUGNO.

E' su ciò che desidero insistere, all'indomani del confronto sfociato nell'unanime intesa che è stata raggiunta nel Consiglio europeo dello scorso giugno e quindi nella Conferenza intergovernativa.

Condivido, sia chiaro, la generale convinzione che grazie al sapiente e tenace impegno della Presidenza tedesca si sia conseguito un risultato di vitale importanza. Lo stallo istituzionale non poteva protrarsi ancora senza grave danno e rischio ; già da troppe parti si gettava l'allarme per un'Europa fatalmente bloccata, incapace di risollevarsi, e c'era chi sperava che così fosse.Per quel che ci riguarda, non avevamo dimenticato il monito di Jean Monnet, a proposito del contrastato percorso della costruzione europea : "niente sarebbe più pericoloso che confondere difficoltà e fallimento". Nessuna confusione. Sapevamo quanto profonde fossero le basi della costruzione europea e come non fosse in causa la sua sopravvivenza. Confidavamo nel superamento dell'impasse seguita alla mancata ratifica del Trattato costituzionale da parte di un importante gruppo di Stati membri, a cominciare dalla Francia ; ci auguravamo che all'accordo si potesse giungere senza gravi sacrifici.

Ebbene, è giusto dire che la sostanza del Trattato del 2004 è stata salvata ; secondo la quantificazione "forfettaria"degli esperti, è il 90% delle innovazioni contenute in quel testo che è rimasto acquisito.

Quel che merita una seria riflessione è dunque altro. Non tanto la conseguenza concreta degli interventi correttivi sul Trattato costituzionale che è stato infine inevitabile accettare ; ma piuttosto il complesso delle posizioni che si sono espresse nel rifiuto della ratifica e nelle richieste di modifica di quel Trattato.Che cosa hanno significato la cancellazione del nome, dei simboli, delle parole e delle disposizioni che avevano un "constitutional flavor"? Che cosa ha significato la dichiarazione con cui si è sancito che le formulazioni rimaste nel "Reform Treaty" in materia di politica estera e di sicurezza comune "non toccano né le competenze degli Stati membri né le loro rappresentanze nei paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali"? Che cosa significa il rinvio di non pochi anni dell'entrata in vigore del sistema della doppia maggioranza nelle votazioni del Consiglio? O la reiterata pretesa che i Parlamenti nazionali possano bloccare le proposte legislative della Commissione europea?

Il significato di tutte quelle pressioni e quelle riserve con cui ci si è dovuti confrontare per "salvare la sostanza del Trattato costituzionale" è indubbiamente uno solo : contrastare o frenare l'attribuzione alle istituzioni europee di nuovi compiti e di nuovi poteri. Si ripresenta così nell'Unione a 27 un nodo più volte emerso e mai sciolto nel passato, quello della convivenza e sovrapposizione tra diverse visioni del progetto europeo.

C'è qualcosa, nelle posizioni espresse da diversi Stati membri, che fa pensare a un ritorno al passato. Da qualche parte si presenta invece l'abbandono del Trattato costituzionale come un salutare "ritorno al realismo" o addirittura "alla ragione". Ma si è forse, tra il 2001 e il 2004, navigato nell' "irreale" o semplicemente "sragionato"? No, nella Dichiarazione di Laeken, la scelta di lavorare a un Trattato costituzionale era nata dalla necessità di dare risposta a pressanti interrogativi sull'avvenire dell'Europa.

4. LE RAGIONI DEL TRATTATO COSTITUZIONALE.

Non si può dimenticare che il contestuale processo di "grande allargamento" dell'Unione, aveva in primo luogo suggerito di riaffermare e riformulare principi, valori, obbiettivi del progetto di integrazione europea cui stavano per aderire paesi provenienti da contesti ideologici e internazionali e da sistemi nazionali tutt'affatto diversi. La Costituzione venne vista come fattore unificante, e in qualche modo come momento di rifondazione, del progetto di integrazione europea, finalmente apertosi all'intero continente.

In secondo luogo, la decisione di allargare in modo così significativo la membership dell'Unione rendeva imperativa la definizione di nuovi assetti istituzionali e meccanismi decisionali per evitare la paralisi o la diluizione del processo di integrazione.E' così che fu concepito il disegno del Trattato costituzionale. Quelle ne furono le ragioni e quella ne fu l'ambizione. L'edificio della costruzione europea doveva essere messo in grado di sostenere il peso del "grande allargamento" e darsi un'esplicita fisionomia di carattere, ormai, costituzionale, a coronamento degli sviluppi graduali e di fatto succedutisi nell'arco di cinquant'anni. Bisognava sancire una caratterizzazione dell'Europa unita come comunità di diritto, come comunità di valori e, sempre di più, come originale entità politica. E' questa prospettiva che bisogna impegnarsi a tenere aperta, al di là dell'accordo giuridicamente perfezionato a Lisbona.

Tale accordo ha permesso di salvare gli "attrezzi innovativi" - come li ha di recente definiti il Presidente Giscard d'Estaing - elaborati dalla Convenzione di Bruxelles (da una presidenza stabile del Consiglio alla nuova figura del Ministro degli esteri dell'Unione, pur mutandone il nome). Li si è dispersi, aggiunge Giscard d'Estaing, in tre caselle di emendamenti ai vecchi Trattati, complicando e non semplificando, rendendo più e non meno illegibile, il nuovo Trattato da ratificare, ma la "cassetta degli attrezzi" è rimasta quella di prima.Peraltro, la Costituzione, faticosamente negoziata per due anni e mezzo, non era solo una "cassetta degli attrezzi", a conferma che le istituzioni non sono solo dei mezzi ma abbracciano anche i fini, la sfera delle finalità. Ed è proprio il discorso sulle finalità, sulle ambizioni, sulla fisionomia dell'integrazione che è uscito annebbiato dalle mancate ratifiche del Trattato costituzionale e dalle discussioni che le hanno precedute e seguite.

Ma non si può ritornare al passato, né per gravi né per minori ragioni di dissenso. L'Europa comunitaria ha potuto vivere e svilupparsi in quanto ha guardato avanti, evitando sia di impantanarsi in compromessi provvisori che potessero diventare paralizzanti, sia di attardarsi - come, in un'altra fase della vita della Comunità, nel 1984, disse il Presidente François Mitterrand - in qualche "obsédant contentieux", in delle "querelles dérisoires".

5. IL RAPPORTO TRA UNIONE E STATI NAZIONALI.

La questione del rapporto tra interesse comune europeo e interessi nazionali, e più in generale del rapporto tra Unione e Stati nazionali, è - come tutti ben sappiamo - antica quanto l'Europa comunitaria, nel senso che ne ha accompagnato l'intero cammino. D'altronde, tra Unione e Stati nazionali è naturale che vi sia una permanente dialettica, dalla quale far scaturire di volta in volta il giusto equilibrio. C'è tuttavia un limite che non può essere superato, pena la vanificazione del progetto europeo come progetto non di semplice cooperazione tra Stati sovrani, ma di effettiva, graduale integrazione, destinata a sfociare in unione politica. Si tende ora a negare la validità e attualità della stessa nozione di "deriva intergovernativa" ; e invece si tratta di un rischio ricorrente, di rottura - nel rapporto tra Unione e Stati nazionali - di un equilibrio compatibile con la natura del progetto europeo come progetto di integrazione. Saremmo ingenui o reticenti se non vedessimo come quel rischio si sia venuto riacutizzando, dopo la firma del Trattato costituzionale e in contraddizione con esso.

A una "deriva intergovernativa" non può corrispondere che un allontanamento dal fine di un'Europa forte, capace di portare avanti efficaci politiche comuni e di affermarsi come attore globale sulla scena internazionale. Più si lesinano poteri e risorse alle istituzioni europee più si dimostra di non condividere quella finalità. Nel giugno del 2005, uno dei più impegnati leader europei, Jean-Claude Juncker, nel concludere il semestre di presidenza lussemburghese, illustrò al Parlamento europeo il controverso esito del negoziato sulle prospettive finanziarie dell'Unione con queste parole :

"Abbiamo visto affrontarsi due concezioni dell'Europa : quella che punta piuttosto sulle sole virtù del mercato - mercato che è incapace di produrre la solidarietà - e quella che punta su una più avanzata integrazione politica". Ovvero il "campo di coloro che pensano che l'Europa qual'è si spinge già troppo lontano, e quello di coloro che pensano, come me, che essa deve andare ancora molto più lontano".

Ebbene, un chiarimento di fondo è divenuto indispensabile, innanzitutto attraverso una più schietta discussione tra i sostenitori di quelle due concezioni. Non giovano a nessuno, in questo momento, le strategie di dissimulazione.
Deve esserci più franchezza nel confronto tra i partner dell'Unione, e tra le diverse visioni di cui essi sono portatori; e più franchezza nel dialogo con i cittadini.

6. L'IDEA DELLA FEDERAZIONE EUROPEA E LA CREAZIONE, NEL 1974, DEL CONSIGLIO EUROPEO COME MOTORE DELLA COSTRUZIONE COMUNITARIA.

L'idea della Federazione europea ha rappresentato una fondamentale fonte di ispirazione per l'avvio e lo sviluppo della Comunità e poi dell'Unione. Essa non ha mai implicato la morte naturale o il deliberato svuotamento degli Stati nazionali, e tantomeno può essere esorcizzata agitando lo spettro di un Super-Stato europeo ! Questo oggetto non identificato che turba i sogni degli euro-scettici è antitetico a un'idea di Federazione, perché questa è incompatibile per sua natura con la cancellazione delle diversità.

E' stato Jacques Delors a suggerire la formula "Federazione di Stati nazione", per superare l'equivoco di una contrapposizione, ma certamente pensando alla disponibilità degli Stati membri ad autolimitare, in alcuni campi essenziali, i loro poteri sovrani concorrendo a rafforzare l'esercizio, al livello sovranazionale, di una sovranità condivisa.Fin dall'inizio, i "padri fondatori" avevano sottolineato come il Consiglio - in quanto luogo di rappresentanza degli Stati nazionali - si ponesse "al punto d'incrocio di due sovranità, l'una nazionale, l'altra sovranazionale", con "il compito primordiale" non "di salvaguardare gli interessi nazionali degli Stati membri" ma "di promuovere gli interessi della Comunità". Quelle che ho citato sono parole di Konrad Adenauer nel 1952, e nel rapporto tra Consiglio e Commissione Jean Monnet indicò un "equilibrio autenticamente federale". Molti anni dopo, nel 1974, nacque - succedendo agli informali incontri di vertice tra Capi di Stato e di governo - il Consiglio europeo. Ancora una volta, Monnet fu tra i grandi tessitori di quella decisione, ritenendo che si dovesse "ritornare alle fonti del potere" per dar vita a un'autorità europea, che le istituzioni comunitarie esistenti fino a quel momento non potevano da sole garantire, e per aprire la strada, al di là dell'unione economica, a una "unione più completa e più profonda - federale o confederale, non saprei dire". Si decise così di far nascere il Consiglio europeo, e contemporaneamente si decise - fatto di evidente, grande significato - che fosse eletto direttamente, a suffragio universale, il Parlamento europeo.

Ho voluto ricordare quel lontano precedente, per mettere in evidenza come non si è mai smarrito, nel corso della costruzione europea, il senso del contributo che spetta agli Stati nazionali darvi nel quadro dei Trattati. E l'ho voluto ricordare per cogliere come l'idea del Consiglio europeo quale motore della costruzione comunitaria sia, a trent'anni di distanza, riemersa con la proposta di una presidenza stabile del Consiglio, che non si sovrapponga alla Commissione ledendone le prerogative e che si confronti con il Parlamento europeo nel pieno rispetto dei suoi accresciuti poteri legislativi e di controllo.

Non si è dunque mai voluto nel passato un Super-Stato europeo ; e proprio il Trattato costituzionale, ora il Reform Treaty, più di qualsiasi precedente trattato hanno segnato limiti e distinzioni precise in materia di competenze dello Stato e dell'Unione, e mirato a garantire un effettivo ed efficace ruolo del Consiglio dei Capi di Stato e di governo.

Oggi, e nel prossimo futuro, esso dovrà però esercitare davvero un ruolo di "organo motore".

Organo motore, innanzitutto, per la realizzazione di adeguate politiche comuni. E' giusto dire che è di qui, nella fase attuale, che deve ripartire e trovare nuovo slancio l'Europa. Possiamo considerare chiuse le dispute di due anni sulla Costituzione, grazie al Consiglio del giugno scorso: chiuse, naturalmente, nella speranza, vorrei poter dire nella certezza, che il processo di ratifica del Reform Treaty nei 27 Stati membri non presenterà sorprese e colpi di coda, cui si sia costretti a reagire con più drastiche decisioni.

Concentriamo dunque la nostra attenzione sul rilancio necessario e possibile della capacità di proposta e di azione dell'Europa, e per esso dell'Unione. L'agenda è ormai delineata. Specie nell'ultimo anno, si è trovato l'accordo, nel Consiglio europeo e nella Commissione, nel precisare in quali direzioni - in risposta, cioè, a quali impellenti sfide - debbano formularsi o riformularsi, concretizzarsi, portarsi avanti delle politiche comuni, capaci di rafforzare la crescita e la coesione delle economie e delle società europee e di affermare il ruolo dell'Europa come attore globale in un mondo che si va sempre di più trasformando.

7. LE NUOVE SFIDE. LA MISSIONE DELL'EUROPA COME ATTORE GLOBALE.

Mi limiterò qui a citare brevemente i campi in cui si è convenuto di produrre decisivi e visibili progressi.

In primo luogo, le risposte alla sfida della mondializzazione, come recita la comunicazione della Commissione in vista dell'incontro di ottobre dei Capi di Stato e di governo. Si tratta da un lato di evitare che l'Europa si ponga sulla difensiva e perda posizioni, arretri gravemente per effetto del processo di globalizzazione. E si tratta dall'altro lato di riuscire a influenzare il corso di quel processo. Già il Consiglio europeo dello scorso marzo ha adottato significative indicazioni per rafforzare il mercato interno e la competitività dell'Europa, per rafforzare innovazione, ricerca e istruzione, per promuovere l'occupazione, modernizzare e rafforzare il modello sociale europeo. Si è ribadita in sostanza, con maggior vigore, la strategia di Lisbona, nel quadro della quale una funzione motrice dovrebbe esercitare l'Eurozona. E nella più recente comunicazione della Commissione, da me citata, si sono inoltre posti grandi problemi di carattere generale : assicurare la stabilità dei mercati finanziari sempre più mondializzati, contrastare gli ostacoli agli scambi e agli investimenti perseguendo l'apertura dei mercati nel mondo intero, costruire una regolamentazione comune per il funzionamento del mercato mondiale.

Ma la maggiore novità del 2007, grazie all'impulso della presidenza tedesca, è stato senza dubbio il lancio di una fondamentale nuova politica comune : una politica climatica ed energetica integrata, vitale per l'Europa e di forte rilevanza sul piano mondiale. Questa è davvero una sfida cruciale, cui è impossibile dare una risposta in termini nazionali ; rispetto ad essa la strada di un orientamento e di un impegno comune al livello europeo è semplicemente obbligata.

Egualmente obbligata appare una risposta comune europea alla sfida dei movimenti migratori. Già da lungo tempo sono state d'altronde individuate le principali componenti di una politica comune europea in questo campo : la lotta contro l'immigrazione illegale e il traffico di esseri umani, l'apertura e il governo di canali legali di ingresso e permanenza, la partnership con i paesi di origine e di transito dei flussi migratori.

E infine, la sfida che in qualche modo tutte le riassume e che ridisegna - rispetto all'esperienza dei cinquant'anni trascorsi - la missione cui è chiamata l'Europa, la possibile nuova stagione dell'integrazione europea. Parlo della sfida della sicurezza internazionale e di un nuovo e più giusto ordine mondiale. E la risposta ha un nome conosciuto già da tempo : una politica estera, di sicurezza e di difesa comune. Dei passi avanti non sono mancati, ma si è ancora lontanissimi dal livello di presenza e di credibilità indispensabile perché l'Europa sia attore riconosciuto e conti realmente in un mondo percorso da molteplici gravi tensioni e da grandiose trasformazioni negli equilibri tra le maggiori potenze e tra le diverse aree. Ce n'è forse oggi una maggiore consapevolezza, nel confronto quotidiano con situazioni di crisi, con focolai di guerra, con scelte problematiche e rischiose da compiere in seno alla comunità internazionale. E si è salvato, nel Reform Treaty, l'impegno a dar vita a una nuova figura di rappresentante della politica estera e di sicurezza dell'Unione, dotandolo anche dello strumento di un servizio "per l'azione esterna". Ma ci si muoverà decisamente in questo senso?

Pongo questo interrogativo non come manifestazione di scetticismo, ma come richiamo a una volontà politica comune che ancora difetta.

8. RILANCIARE LE POLITICHE E L'AZIONE DELL'UNIONE.

E allora, diciamolo chiaramente, è giusto concentrarci sulle politiche, sulle linee d'azione da portare avanti in risposta alle sfide che ho ricordato, ma si deve sapere che questo è ormai il banco di prova della capacità dell'Unione europea, non di sopravvivere stancamente, ma di portarsi al livello delle sue responsabilità. Il banco di prova della capacità di usare effettivamente gli strumenti nuovi definiti prima nel Trattato Costituzionale e ora nel Reform Treaty, il banco di prova della capacità di esprimere davvero una volontà politica comune. Il banco di prova, in definitiva, della capacità di sciogliere l'antico nodo di contrastanti visioni del progetto europeo, di evitare che il nostro cammino sia condizionato fatalmente da parte delle forze che resistono e premono in senso minimalistico e restrittivo dinanzi a ogni avanzamento della costruzione europea.

Il tempo disponibile per questa verifica e per l'eventuale ricorso ad altre strade, non è molto. L'Europa non si rinnova e cresce come richiede la competizione globale : non possiamo sopravvalutare i risultati della strategia di Lisbona, minimizzarne i ritardi e nascondere gli ostacoli che ha incontrato e incontra. E pesa in effetti anche su risoluzioni adottate, su indirizzi ben definiti in ordine a problemi importanti, pesa sempre l'incognita dei contrasti che nei passaggi istituzionali tra Commissione, Parlamento e Consiglio, possono prolungarne e bloccarne il cammino. Ho fatto prima un breve accenno al tema dell'immigrazione : ebbene, quanta parte del programma approvato nel Consiglio di Tampere del 1999, quante delle misure proposte, in particolare per definire standard comuni in materia di immigrazione legale, sono rimaste bloccate per lunghi anni perché richiedevano e non raggiunsero un consenso unanime nel Consiglio? E anche a questo proposito non è molto il tempo disponibile per far fronte con una politica comune a emergenze e tensioni che interessano tutti i paesi europei.

Non rimane molto tempo per superare l'impaccio e il ritardo dell'Europa a fare la sua parte contro il terrorismo, per la sicurezza internazionale, guadagnando così credibilità e peso anche per sostenere le sue ragioni nel rapporto sempre essenziale con l'alleato americano. Non rimane molto tempo per dimostrare la capacità dell'Europa di parlare con una sola voce nei fori internazionali, di sviluppare sue posizioni e iniziative rispetto alle più scottanti questioni sul tappeto, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, nel rapporto così teso con l'Iran (per non citare che alcuni esempi soltanto). Il rischio di una sostanziale irrilevanza dell'Europa nel contesto mondiale non possiamo negarlo. E questo mentre da tante parti ci si attende un apporto autonomo e costruttivo dell'Europa, anche nel contesto delle relazioni transatlantiche ; mentre, come ha detto di recente in modo eloquente il Presidente Koehler, "il mondo si aspetta da noi europei più di quello che stiamo attualmente offrendo" per "modellare" la globalizzazione.

Predisponiamoci dunque alle prove di coerenza, alle verifiche di volontà politica, cui è legata - dopo il superamento dello stallo istituzionale - la possibilità di un rilancio dell'Europa, della sua crescita, della sua coesione, della sua assertività, del suo ruolo.

Predisponiamoci a verificare in concreto - mentre si procede nelle ratifiche del Reform Treaty - in quale misura permane e incide il contrasto tra diverse concezioni del progetto europeo e diversi livelli di ambizione per l'Europa. E domandiamoci quali strade si possano di conseguenza tentare, nell'ambito del Trattato siglato a Lisbona.

9. LE FRONTIERE DELL'UNIONE ; PER UN'EUROPA INTEGRATA E GOVERNABILE.

Anche un tema che nella sua complessità viene molto discusso e sembra chiedere risposte conclusive - il tema cioè delle frontiere dell'Europa (o meglio dell'Unione), in rapporto a nuovi possibili allargamenti non solo ai paesi dell'area balcanica ma alla Turchia - riconduce all'idea che si ha del processo di integrazione. Già nel negoziare con i 12 paesi candidati nei primi anni 2000, si è commesso, a me pare, l'errore di non affrontare la questione di fondo : quella delle deleghe di sovranità verso le istituzioni dell'Unione, che sole possono dar corpo a un'esperienza diversa da quella di semplice cooperazione tra Stati sovrani alleati. Ma ancor più guardando al futuro l'esperienza ci dice che si può pensare a nuovi allargamenti solo se compatibili con l'idea di un'Europa fortemente integrata e governabile, di un'Europa non condannata alla diluizione e alla rinuncia a ogni ambizione di soggetto politico.

Una strada suggerita con crudo realismo, ancora di recente, da Jacques Delors è quella di circoscrivere gli obbiettivi che possono essere perseguiti dalla Grande Europa, e di procedere verso obbiettivi più ambiziosi attraverso una differenziazione, che veda l'iniziativa di un gruppo più ristretto di paesi, cui possano associarsi altri quando siano in condizione di partecipare a quella scelta di integrazione più avanzata. Sappiamo che ci sono stati dei precedenti in questo senso, dall'accordo di Schengen alla fondamentale scelta della creazione dell'Euro e della Banca Centrale europea. Con il Reform Treaty si indica ora la possiblità di ricorrere più facilmente allo strumento delle cooperazioni rafforzate.

Si può discutere sulla fattibilità di tali forme di integrazione più avanzata e sul come esse possano effettivamente corrispondere alla necessità di accelerare il cammino dell'Unione europea. Ma di certo non se ne può avere timore da parte dei nuovi Stati membri, verso i quali le porte resterebbero aperte come per tutti gli altri (e d'altronde più di uno tra essi è entrato o sta per entrare sia nell'Eurozona che nell'accordo di Schengen). E tantomeno se ne può avere timore in generale : si tratterebbe di una differenziazione non nociva per l'unità del quadro istituzionale comune, oggi, ai 27. Ben più nocivo è il moltiplicarsi degli opt-out e delle deroghe su richiesta di singoli Stati membri : una pratica, questa sì, che conduce alla regressione e non all'avanzamento, all'erosione e non alla differenziazione, del processo di integrazione europea.

10. RECUPERARE CONSENSO NELL'OPINIONE PUBBLICA.

Quelle che sto così indicando sono opzioni già di fatto sul tappeto, indipendentemente da quel che si può ipotizzare per l'Europa e per l'Unione spingendo lo sguardo più lontano, fino al 2020 o 2030. Si può dedicare alla riflessione su questa prospettiva ulteriore un apposito Comitato di saggi, pensando a precedenti che hanno dato nel passato risultati positivi ; ma oggi si deve tener conto dei contributi venuti dal dibattito apertosi proprio qui, in questa Università, nel maggio del 2000, e dei confronti approfonditi compiutisi poi nella Convenzione. Non vorrei che ci si ripetesse troppo ; non vorrei che rischiassimo un'overdose di riflessioni e un deficit di decisioni.

Abbiamo bisogno di decisioni che producano effetti tangibili per recuperare consenso nelle nostre opinioni pubbliche, quel consenso che si è attenuato, e non solo nei due paesi del no referendario alla ratifica del Trattato costituzionale. Si è verificata tra i cittadini - non trascuriamo questo dato fondamentale - una crisi di fiducia nei confronti del progetto europeo. Hanno concorso a determinarla il rallentamento della crescita, specie in alcune grandi economie nazionali, il timore di risultare tra i perdenti del processo di globalizzazione, la preoccupazione per gli effetti dell'allargamento dell'Unione, e in definitiva la percezione di un'impotenza e di un declino dell'Europa nel complessivo quadro mondiale.

E' una crisi che può essere superata dando segni concreti e consistenti di rilancio e insieme sbarazzando il terreno da campagne mistificatorie e distruttive. Mi riferisco a campagne politiche e di opinione che hanno oscurato il bilancio eccezionalmente positivo di un intero cinquantennio, messo in ombra tutto un patrimonio di valori e di conquiste, accreditato l'idea di un'Europa che presentava più vincoli e costrizioni che benefici e opportunità, mentre spesso certi governi nazionali invocavano le direttive e gli obblighi europei come alibi per coprire loro errori e loro insufficienze. Occorre dunque un grande sforzo, politico e culturale, di comunicazione e di pedagogia europeista, che faccia tutt'uno con il potenziamento dei canali - anche sulla base delle previsioni del nuovo Trattato - di coinvolgimento, di consultazione, di partecipazione dei cittadini e della società civile. E' lo sforzo da compiere per far crescere l'Europa come Unione più aperta e democratica.

11. UN NUOVO IMPULSO DA COMMISSIONE E PARLAMENTO.

Ma da dove può venire in questa fase l'impulso per un'azione del genere, l'impulso per decisioni nuove, tempestive ed efficaci, la volontà politica, in sostanza, di cui c'è bisogno?

Il nostro sguardo - il nostro appello - non può che rivolgersi alle istituzioni comuni e agli Stati nazionali che hanno fatto da motore nei periodi di più fecondo sviluppo dell'integrazione europea.

In particolare, l'istituzione Commissione, che sta vivendo una difficile transizione, e l'istituzione Parlamento europeo, che ha guadagnato poteri e rappresentatività e che si sta mostrando, per aspetti essenziali, vigile e assertivo senza cadere nel velleitarismo. Esso ha anche saputo aprirsi nel modo giusto a un più intenso rapporto con i Parlamenti nazionali e più specificamente a una collaborazione con le loro rappresentanze - senza che venissero confusi i rispettivi ruoli - nel processo di elaborazione del Trattato costituzionale. E' stata quella un'occasione e un'esperienza da cui forse i Parlamenti nazionali non hanno tratto, attraverso i loro rappresentanti, il pieno senso di una loro accresciuta funzione e corresponsabilità per l'avanzamento dell'unità e dell'integrazione europea.

Altiero Spinelli, nell'ultima sua stagione di infaticabile profeta e combattente dell'Europa, ha fortemente puntato sulla vocazione costituente del Parlamento europeo. Un mandato in quel senso non venne allora conquistato, ma dal Parlamento europeo, in più stretto legame con i Parlamenti nazionali e con la stessa grande platea dei cittadini-elettori, può venire un nuovo impulso al rilancio dell'Unione e alla costruzione di prospettive più avanzate per l'Europa unita.

12. GERMANIA, ITALIA, FRANCIA : IL RUOLO DELLE NAZIONI E DELLE LEADERSHIP PIÙ RISOLUTE.

In quanto agli Stati membri dell'Unione, alle nazioni e alle leadership politiche, non c'è bisogno di ricordare quale sia stato il ruolo storico dei paesi fondatori dell'Europa comunitaria, grandi e piccoli. Ad essi se ne sono aggiunti, attraverso i successivi allargamenti dell'Unione, altri egualmente mossi da un forte convincimento e impegno europeistico ; e sono convinto che l'impulso oggi necessario, la volontà politica indispensabile possano venire anche dall'area degli Stati entrati nell'Unione in questi ultimi anni.

Desidero tuttavia mettere l'accento su quel che ci si aspetta e che può venire dalla Germania, dall'Italia, dalla Francia. Le sorti dell'Europa unita sono in gran parte nelle loro mani.

Della Germania e dell'Italia si può ben dire che esse hanno mostrato entrambe la più ferma e ininterrotta continuità con lo spirito delle origini, con il progetto dell'integrazione europea, con la visione di Adenauer e De Gasperi. Ne hanno dato prova in seno a tutte le istituzioni europee e attraverso le loro scelte come Stati nazionali. Non hanno mai provocato crisi nella vita della Comunità e dell'Unione, hanno sempre lavorato per il superamento delle crisi e delle difficoltà che sono insorte. Spetta alla Germania e all'Italia rinsaldare questa comunanza di ideali e di obbiettivi europei, al di là del succedersi e rinnovarsi delle leadership politiche : i nostri due paesi hanno una responsabilità particolare per aver sempre creduto nell'Europa come unione politica, come unione sempre più stretta tra i popoli europei. Su un impegno dell'Italia in questo senso, senza rassegnarsi ad alcun ripiegamento su approcci meno ambiziosi, si può sempre contare, come ho detto all'inizio ; confido che esso si traduca anche in una più intensa capacità di proposta e di iniziativa.

Il percorso della Francia è stato più travagliato. Ma è del tutto giusto affermare, come ha fatto il Presidente Sarkozy, che la volontà di unire l'Europa, salvaguardando i valori della civiltà europea già messi a rischio da due guerre nel cuore dell'Europa, la coscienza di questa necessità e la visione della strada nuova da aprire, "furono d'abord francesi". Dal Presidente Sarkozy sono venuti in questi mesi accenti appassionati e riconoscimenti di grande valore : sul valore dell'"esperienza pratica di una sovranità condivisa" che ha caratterizzato da cinquant'anni l'Europa, sulla portata delle nuove sfide mondiali e sui limiti che di fronte ad esse presenta la capacità d'azione degli Stati nazionali, sul nesso inscindibile "non c'è una Francia forte senza l'Europa, come non c'è un'Europa forte senza la Francia".

La riaffermazione della missione e dell'impegno europeo della Francia rappresenta - e lo dico senza voler ignorare o diplomatizzare le differenze che restano o siano da verificare - una delle maggiori ragioni di fiducia, in questo difficile momento, nell'avvenire dell'Europa unita.

Abbiamo nello stesso tempo sempre saputo quale contributo sia venuto alla costruzione europea dall'intesa franco-tedesca, che dagli anni di Robert Schuman e Konrad Adenauer è stata trasmessa, anche in termini di strette intese personali, nel vivo di vicende di fondamentale importanza, tra Capi di Stato e di governo dei due paesi. E come tacere di due grandi presidenti, entrambi per un decennio, della Commissione europea, Walter Hallstein e Jacques Delors !

Peraltro, è ormai comune opinione che quell'intesa rimanga uno dei perni principali del processo d'integrazione europea, ma non sia da sola sufficiente a produrre l'impulso necessario a colmare - nell'Unione oggi così larga - vuoti di volontà politica che perdurassero e pesassero gravemente, o debolezze del tessuto e del metodo comunitario.

Costruire e attuare le decisioni e le politiche cui è legato il futuro dell'Europa, non può essere l'opera di alcun direttorio, a due o a tre e comunque composto o assortito. La più forte volontà politica europea di cui c'è bisogno può essere suscitata da un nuovo impulso delle nazioni e delle leadership più risolute, ma deve scaturire da sinergie ben più ampie e calarsi nel modo di operare, nell'orientamento e nell'azione delle istituzioni comuni che presiedono al processo d'integrazione.

Come disse parecchi anni orsono un grande protagonista dell'avventura europea, quando già vide profilarsi l'alternativa tra il lasciare ad altri di decidere le sorti del nostro continente, o di unire le nostre forze per fare pesare l'Europa sul divenire del mondo, "siamo in una fase in cui il destino esita ancora". Non possiamo attendere pigramente, prigionieri delle nostre dispute e delle nostre incertezze, che il destino volga a sfavore dell'Europa.