"L'Europa nel mondo di metà Novecento e nel mondo d'oggi"
Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", 14 novembre 2009
In quale contesto mondiale prese avvio la costruzione europea, e in quale quadro si pone oggi il problema dell'ulteriore sviluppo del processo d'integrazione? Sarà questo il tema della mia riflessione oggi dinanzi a voi, in una Università e in una città da cui sono venuti e vengono contributi importanti, ad opera di studiosi e personalità di rilievo, all'edificazione dell'Europa unita e alla storia di questa, già più che cinquantennale, straordinaria esperienza. Studiosi e personalità di rilievo: per non fare che qualche nome, di ieri e di oggi, Franco Capotorti, Felice Ippolito, Renato Ruggiero, Giuseppe Tesauro, Antonio Tizzano, Biagio De Giovanni.
So bene, inoltre, quale patrimonio l'Orientale rappresenti e possa mettere a frutto nell'interesse del paese nello scenario che nel corso della mia esposizione mi proverò a tratteggiare. Parlo della più antica scuola di sinologia e orientalistica del continente europeo che qui si è costituita a partire dal XVIII secolo ; parlo della singolare capacità di dialogo e di rapporto col mondo arabo e segnatamente con la sponda Sud del Mediterraneo, che la vostra Università ha espresso ed esprime. Di qui la consapevolezza che è forte in me in questo momento del valore del riconoscimento che mi si è voluto conferire. Ve ne ringrazio.
E vengo ora senz'altro al tema che mi sono proposto di trattare.
Per intendere il punto di vista dal quale parte la mia riflessione, occorre sgombrare il campo da alcune semplificazioni che hanno dato luogo a non lievi fraintendimenti. A cominciare dall'atto di nascita dell'Europa comunitaria, nel maggio 1950, si è intrapreso un cammino che non è mai stato - come si è finito per credere comunemente - dettato solo da motivazioni economiche, finalizzato a obbiettivi di puro interesse per le economie di una parte del nostro continente ; e che non si è configurato come ripiegamento dell'Europa, o dell'Europa occidentale, su se stessa.
L'origine e l'impronta, fin dai primi stadî, del processo d'integrazione europea, sono state eminentemente politiche : rivolte a un comune futuro politico e non solo economico, e radicate nella realtà politica non soltanto dell'Europa ma del mondo di allora, trovando in quel più ampio contesto ragioni e sostegni essenziali.
Per i sei paesi che sottoscrissero la Dichiarazione Schuman e quindi il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, determinante fu il riconoscersi nell'obbiettivo politico della riconciliazione tra Francia e Germania : il valore supremo essendo quello della pace, da garantire attraverso il superamento degli antagonismi nazionali e dei conflitti d'interesse che avevano acceso per due volte il fuoco di una guerra mondiale nel cuore dell'Europa. Ma la riconciliazione franco-tedesca, la creazione di un'area di stretta cooperazione in Europa occidentale tra Stati che avevano storicamente ordinamenti democratici o li stavano ricostruendo - dopo il crollo del fascismo e del nazismo - era ormai un interesse politico vitale non solo per gli Stati europei cui toccava la scelta di avviare e portare avanti quel processo, ma per la vittoriosa potenza americana.
Quest'ultima, nel farsi punto di riferimento per l'affermazione dei valori liberaldemocratici e dell'economia di mercato in Occidente e in altre aree cruciali, si trovava, sulla soglia degli anni cinquanta dello scorso secolo, praticamente immersa nella sfida con l'Unione Sovietica, forte della sua nuova, ampia sfera d'influenza, sul terreno di quella che stava divenendo la "guerra fredda". Nell'ottica americana non si poteva esitare a sciogliere il nodo della questione tedesca, a consolidare la rinascita della democrazia in Germania, ovvero nella sua parte occidentale, a gettare le basi di una crescita nella libertà e nella prosperità almeno di un gruppo decisivo di Stati europei, rappresentativi, al di là dei loro limiti, del prezioso retaggio della civiltà europea.
La strada da battere si rivelò allora essere quella dell'integrazione tra sei paesi dell'Europa occidentale - tre grandi e tre medio-piccoli -, attraverso l'invenzione comunitaria, concretizzatasi innanzitutto nella CECA. Il favore e il sostegno degli Stati Uniti, del Presidente Truman, del segretario di Stato Acheson, risultano storicamente indubbî, così come indubbî appaiono il significato e il valore che aveva assunto la gestione concertata degli aiuti americani del Piano Marshall alla ricostruzione delle economie europee.
Non ritorno ora sulle motivazioni proprie di ciascuno dei sei paesi, a cominciare da Francia e Germania, che confluirono nella scelta di dar vita alla prima Comunità dell'Europa a Sei. Per l'Italia contò soprattutto la visione strategica, l'opzione internazionale, di Alcide De Gasperi ; e non gli era certo estraneo il ricco retroterra dell'europeismo italiano, coltivato da uomini e gruppi che avevano concepito un disegno di unità europea guardando al nuovo mondo di pace da costruire e attingendo in particolare all'esempio del federalismo americano. Non a caso, da Luigi Einaudi ad Altiero Spinelli, era stata impugnata la bandiera degli "Stati Uniti d'Europa".
Ma quel che mi interessa qui sottolineare è il coraggio di cui diedero prova quegli statisti dei sei paesi che accettarono - anche se non fu tra quei paesi la Gran Bretagna - il principio della cessione di quote significative delle sovranità nazionali affidando a nuove istituzioni europee comuni l'esercizio di forme di sovranità condivisa. Quella dei Sei fu definita, non senza irrisione, la Piccola Europa : ma in quella scelta ci fu autentica grandezza, lungimiranza, senso del futuro. E nulla toglie a questa considerazione il fatto che il percorso iniziò dalla sfera ben delimitata della produzione del carbone e dell'acciaio.
La natura fortemente conflittuale del contesto mondiale in cui nacque il processo di integrazione si rispecchiava, non dimentichiamolo, nel parallelo costituirsi dell'Alleanza Atlantica e della sua struttura militare, come sigillo della comune collocazione euro-americana sul fronte della guerra fredda, nella sfida e nel duro confronto - in primo luogo ideologico e politico - con il blocco sovietico.
Non seguirò, in questa mia sintetica riflessione, l'evoluzione nei decenni successivi della costruzione europea, se non per pormi il problema di come e quanto essa rifletté l'evolversi del contesto mondiale. Ci fu una connessione evidente in alcuni momenti di svolta : infine, inutile dirlo, nel cruciale 1989, l'anno della caduta del muro di Berlino. Ma più in generale si può dire che per un lungo periodo gli alti e bassi dei rapporti tra Est e Ovest, nel mondo diviso in due blocchi, condizionarono il crescere e l'atteggiarsi dell'Europa unita e ne furono a loro volta condizionati. Si pensi a periodi di tensione come quello dell'impennata degli anni '70 nella corsa agli armamenti nucleari ; si pensi alle fasi di distensione e di dialogo, nelle relazioni tra le due Germanie e tra le due Europe, e più in generale tra Est e Ovest (basti il richiamo alla Conferenza e all'Atto di Helsinki). Dall'Europa comunitaria vennero a più riprese contributi di moderazione, non sempre compresi dalle Amministrazioni americane, ma sempre senza strappi nell'alleanza transatlantica. E l'esempio della vicina e ben visibile storia di successo della crescita economica e sociale, e della vita democratica, nella Comunità europea, incise profondamente nella percezione delle società dell'Est, contribuendo in misura non secondaria a far maturare la crisi dei regimi comunisti.
Andrebbe rivista alla luce di ciò la definizione sommaria, che a lungo circolò, non solo della Repubblica Federale tedesca ma dell'Europa comunitaria come "gigante economico e nano politico". Certo, l'Europa dei Sei aveva nel 1954 perduto l'occasione, mancato l'obbiettivo - evidentemente prematuro, possiamo dire - di un balzo in avanti politico con la Comunità Europea di Difesa, il cui Trattato cadde insieme all'articolo, concepito da Altiero Spinelli, che prevedeva la nascita di una vera e propria Comunità politica europea. Ed è un fatto che dopo di allora si optò per una Comunità economica, così battezzata a Roma nel 1957, e l'integrazione europea sembrò rinchiudersi in quei limiti. Ma non mancarono successivi sviluppi sul piano della cooperazione politica, e pur tra tante divergenze, debolezze e battute d'arresto, l'Europa - Stati nazionali e istituzioni comunitarie - mai si ridusse a "quantità trascurabile" nelle relazioni internazionali. Peraltro, se nell'era della contrapposizione tra le due superpotenze, l'egemonia americana diede l'impronta all'alleanza transatlantica, ciò avvenne anche per un calcolato ritrarsi dell'Europa da costose e rischiose responsabilità come quelle che avrebbe dovuto condividere e assumere su di sé per la propria sicurezza.
Comunque, quel che più conta fu un tale avanzamento, fino al decennio che culminò nel 1989, del processo d'integrazione sul piano economico, sociale, giuridico, culturale, da implicare, in potenza, il riproporsi dell'Europa unita come soggetto politico. Il fatto stesso di essere via via andata ben oltre i confini originari, abbracciando la Gran Bretagna, un altro paese storicamente importante come la Spagna, appena restituita al campo degli Stati democratici, e numerosi altri membri, giungendo a un totale di 12 nel 1985, dava alla Comunità un peso politico oggettivamente crescente. In quello stesso 1985, con l'Atto Unico - che dà un primo seguito alla grande visione del Progetto Spinelli - si fanno passi avanti anche in direzione di un'identità condivisa - sia pure per vie intergovernative - della Comunità nella politica estera e di sicurezza.
Infine, nel fatidico '89, le grandi prove politiche cui l'Europa a 12 si trova di fronte. Prima fra tutte, la riunificazione tedesca. Diversità di vedute, ambiguità, tensioni, che non mancano, vengono superate. E ci si riesce combinando il riconoscimento della nuova realtà di una Germania non più divisa, che acquista una dimensione ben diversa, con l'assunzione, nel Trattato di Maastricht, di impegni senza precedenti di approfondimento dell'integrazione : l'impegno per l'Unione economica e monetaria, che prenderà presto corpo poggiando almeno sulla seconda gamba, l'Euro, e l'impegno per un più esplicito sviluppo verso l'Unione politica.Si realizzò così l'auspicio formulato dai Dodici a Strasburgo nel dicembre 1989, che il popolo tedesco "ritrovi l'unità attraverso l'autodeterminazione nella prospettiva dell'integrazione comunitaria". Da un lato con la scelta dell'unificazione monetaria si varcò la soglia di uno sviluppo in senso classicamente federale della costruzione europea (anche se il termine "federale" fu bandito dal Trattato di Maastricht) ; dall'altro lato si aprì il capitolo politico supremo - quello dell'affermazione, da parte dell'Unione, della "sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune".
Fu dunque così che il progetto dell'unità europea si ricollocò nel continente non più diviso dal Muro di Berlino, nel mondo non più diviso dalla guerra fredda in due blocchi contrapposti. E apparve chiaro come fosse stata in passato riduttiva l'identificazione - nell'opinione e nel linguaggio corrente - della costruzione europea con il "Mercato Comune". Quest'ultimo è stato, naturalmente, e resta un pilastro fondamentale del progetto ma è ben lungi dall'esaurirlo.
Di recente, il più influente settimanale britannico ha inneggiato al "miracolo" rappresentato dal cammino dell'Europa verso la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali. Un cammino da proseguire fino al pieno completamento del mercato interno, evitando battute d'arresto e passi indietro per effetto della recente crisi mondiale. "Gli europei dovrebbero essere orgogliosi di quel che stanno cercando di costruire" si è scritto a questo proposito, sempre su The Economist : ma quel che da parte britannica si è mostrato di non comprendere è che il progresso verso il grande mercato interno, cui si accompagnavano, nell'approccio di Jacques Delors, il principio di solidarietà comunitaria e la politica di coesione, non poteva non avere per coronamento la moneta unica, da cui la Gran Bretagna è invece rimasta fuori. Ormai la storica impresa, non ancora conclusa, del completamento del mercato interno deve sempre di più confluire nella prospettiva dell'Unione economica e monetaria. E questa, anche nella sua componente - rimasta debole e incerta - di governo comune delle decisioni essenziali sul piano delle politiche economiche, delle strategie di sviluppo, è a sua volta parte integrante del disegno politico di una Unione capace di competere sulla scena mondiale, nel sistema delle relazioni economiche e politiche internazionali.
Crescita competitiva, coesione sociale e civile (spazio di libertà, sicurezza e giustizia, presidiato dalla Carta dei diritti fondamentali), salvaguardia del comune retaggio culturale, e politica estera e di sicurezza comune : sono queste le nuove frontiere del processo di integrazione europeo. In tale direzione si è tuttavia proceduto nel corso degli ultimi dieci anni tra pesanti incertezze e resistenze. Sarebbe facile e penoso farne qui la cronistoria. Le esitazioni sono state superate su un tema cruciale : quello dell'allargamento dell'Unione a tutti i paesi dell'Europa centrale e orientale già incapsulati nel blocco sovietico, e a qualche altro ancora, portando da 15 a 27 il totale degli Stati membri. Non si può dire che sia mancata la consapevolezza della necessità di ben più robuste impalcature istituzionali per sostenere la costruzione europea : lo dice il dibattito che sul finire degli anni '90 portò all'apertura del processo costituente. E l'idea di una Costituzione europea rispondeva all'esigenza non solo del rafforzamento e della riforma delle istituzioni dell'Unione, ma a quella di una consapevole e coerente ridefinizione del progetto europeo, partendo dalle scelte del Trattato di Maastricht. Il fallimento del Trattato costituzionale scaturito dalla Convenzione di Bruxelles e già taglieggiato dalla successiva Conferenza Intergovernativa, resta la prova più clamorosa del prevalere, tra i vecchi e nuovi Stati membri, di fatali contraddizioni e riluttanze.
E ora che ci compiacciamo per la conclusione del defatigante iter di ratifica del ben più modesto Trattato di Lisbona, dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia alle incognite e alle sfide cui è esposto il futuro dell'Europa. In primo luogo, l'incognita della stessa traduzione in atto delle sia pur limitate innovazioni sancite dal Trattato che sta per entrare in vigore : per quel che concerne il modo di concepire la figura del Presidente stabile del Consiglio Europeo specie nel suo rapporto con l'istituzione comunitaria per eccellenza, la Commissione ; per quel che concerne la caratterizzazione, il governo, l'efficienza di quest'ultima, nonché l'effettivo dispiegamento dei poteri attribuiti all'altra autentica istituzione comunitaria, il Parlamento ; e infine, per quel che riguarda la concretizzazione del ruolo del Vice-Presidente della Commissione che concentrerà in sé la responsabilità della politica estera e di sicurezza comune e, specificamente, del nuovo servizio diplomatico europeo.
In secondo luogo, la sfida rilanciata, o meglio riproposta come non mai con drammatica chiarezza, dall'esplodere, nel 2008, di una così profonda crisi finanziaria ed economica mondiale, e dal delinearsi di una nuova configurazione degli assetti di governo del mondo. Tale sfida dovrebbe imprimere il massimo di determinazione e di coerenza nell'attuazione del Trattato di Lisbona e nell'ulteriore sviluppo del processo di integrazione. Mi soffermerò rapidamente, avviandomi alla conclusione, solo su alcuni dei problemi che ne scaturiscono.
L'Unione Europea ha dato impulsi e contributi che non possono essere negati allo sforzo complessivo della comunità internazionale per far fronte alla recente crisi : ma il luogo delle decisioni fondamentali si è spostato dal G8, nel quale il peso dell'Europa era indubbiamente rilevante, al G20, e non c'è bisogno di sottolineare come un peso determinante abbiano già acquistato le nuove potenze emergenti, in special modo dell'Asia, accanto ai maggiori protagonisti del vecchio G8, innanzitutto gli Stati Uniti. Il baricentro si è spostato lontano dell'Europa ; la necessaria riforma delle istituzioni internazionali, a partire da quelle di Bretton Woods, volta a renderle più rappresentative e a rivederne gli equilibri, porrà anch'essa questioni assai serie ai paesi che rappresentano attualmente in ordine sparso l'Europa.
Il mondo conobbe una svolta vent'anni fa, con la caduta del Muro di Berlino, ma è via via cambiato come allora non era possibile prevedere. E' diventato sempre di più interdipendente e davvero globale : la controprova incontestabile l'ha data precisamente la crisi dilagata nell'ultimo biennio. Ed è nello stesso tempo maturata l'esigenza di un governo largamente condiviso del processo di globalizzazione, a fini di più equo e diffuso accesso ai suoi frutti e alle sue opportunità, di crescita sostenibile, di stabilizzazione e pacificazione in vaste regioni nelle quali oggi si concentrano tensioni e minacce (come quella del terrorismo di matrice fondamentalista islamica) da disinnescare nell'interesse generale.
In questo mondo globale, così diverso da quello in cui nacque a metà Novecento il disegno di unità europea, come può quel che abbiamo costruito, l'Unione a 27, con tutto il ricco patrimonio del suo acquis, porsi all'altezza delle sue responsabilità e potenzialità? Ebbene una delle condizioni per riuscirvi sta di certo nella sua capacità di aprirsi più decisamente alle nuove realtà del mondo d'oggi, di dare ben altra consistenza, organicità e credibilità al suo muoversi e operare nel sistema delle relazioni internazionali. Da un lato, il parlare con una voce sola in tutte le sedi istituzionali in cui ci si confronta e si decide da protagonisti della politica e dello sviluppo mondiale. Dall'altro lato, tenere saldamente le fila di tutte le reti e le forme che le sue relazioni esterne sono venute assumendo : accordi di associazione, partenariati, vertici periodici, che già abbracciano attori di tutti continenti. Dare in questo quadro un rilievo prioritario all'area mediterranea e, nell'accezione più ampia (comprendente l'Asia meridionale), mediorientale, perché attraverso le saldature e le sinergie che lì possono realizzarsi l'Europa ha l'opportunità di collocarsi e di pesare nel nuovo grande flusso di risorse e di traffici, nel nuovo grande moto di sviluppo che parte dalle maggiori realtà asiatiche.
Evitiamo un equivoco che in qualche modo circola. Una cosa è l'ampliare e arricchire l'insieme delle relazioni esterne - a cominciare dalla "politica di vicinato" - dell'Unione Europea, altra cosa è lavorare a nuovi allargamenti dell'Unione stessa, aprirsi all'adesione di nuovi Stati membri. Quest'ultimo discorso ha, nella fase storica attuale e nel futuro prevedibile, solo due svolgimenti possibili : i negoziati con i paesi dei Balcani occidentali, a partire dalla Croazia, e il negoziato con la Turchia, messo in forse nei suoi sviluppi e nei suoi esiti dai ripensamenti di alcuni Stati membri dell'Unione e spesso evocato come motivo di inquietudine dell'opinione pubblica.
Ora, noi sappiamo che l'allargamento dell'Unione da 15 a 27 - accompagnato da "atrofia" dell'evoluzione istituzionale dell'Unione - è stato considerato da autorevoli ambienti ed esponenti europeisti come una "fuga in avanti", fonte di "squilibrio tra lo spazio e la sua governabilità". Così si è espresso, ad esempio, in un suo bel libro Silvio Fagiolo, uno dei maggiori artefici del tessuto diplomatico della costruzione europea. Tenendo conto di queste valutazioni e preoccupazioni, l'essenziale è, io credo, un chiarimento che deve venire dai vertici dell'Unione quale essa oggi è. Accanto alle risposte che si attendono dalla Turchia su tutte le materie del negoziato, tocca all'Unione mostrarsi netta e coerente su quel che intende essere : una tradizionale alleanza tra Stati, sorretta da regole di libero scambio in un mercato più o meno unificato, o un sistema d'integrazione fondato sull'esercizio in comune di una sovranità condivisa in campi fondamentali. Nel secondo caso - provvedendo a tutti gli adeguamenti necessari per evitare la diluizione e la paralisi della capacità di decisione e d'azione dell'Unione - l'adesione della Turchia potrà rappresentare una tappa di grande importanza per l'affermazione e l'espansione del ruolo dell'Europa.
Ma riprendo ora il filo dell'esposizione ribadendo la necessità di dare corpo sul serio a una politica estera e di sicurezza dell'Unione Europea. Fu una forzatura illusoria il porsi quest'obbiettivo col Trattato di Maastricht? Parlerei piuttosto di un'intuizione anticipatrice, cui avrebbe dovuto e deve ancora seguire un forte supplemento di volontà politica. Il che è indispensabile anche per progredire, come Unione, ben più conseguentemente di quanto non si sia fatto finora verso "una politica di difesa comune" e una vera e propria "difesa comune" (come la si definì, con formula propria di quel tempo, nel Trattato di Maastricht) : ho in altra sede, a Londra nello scorso maggio, tentato un bilancio degli sforzi compiuti e dei loro limiti, indicando la via da battere per porre l'Unione Europea in grado di farsi carico della propria difesa e anche della sicurezza collettiva. Ho detto allora e ripeto oggi che si tratta di responsabilità e di oneri che l'Europa non può lasciare sulle spalle degli Stati Uniti. Solo così si può aver voce, com'è giusto, nella definizione di un nuovo concetto di sicurezza globale, e solo così si può consolidare quell'alleanza transatlantica che anche in un mondo tanto mutato resta pietra angolare della collocazione internazionale dell'Europa unita.
Delle potenzialità dell'Europa, di quel che l'Europa rappresenta, ha dato una felice sintesi il ministro degli esteri britannico David Miliband in un discorso di poche settimane fa :
"I paesi dell'Unione Europea sostengono quasi il 40% del bilancio delle Nazioni Unite e quasi i due terzi dell'aiuto allo sviluppo mondiale. Il mercato unico ci dà una decisiva influenza nei negoziati sul commercio o sull'ambiente. Abbiamo 2 milioni e mezzo di uomini e donne in armi e 40 mila diplomatici che operano in 1.500 missioni diplomatiche nel mondo."
Ecco, su questo potenziale si può dunque far leva perché l'Europa conti nel mondo globale : purché si riconosca, per trarne tutte le conseguenze, quel che Miliband ha detto a proposito del Regno Unito : o ci impegniamo insieme a "guidare una forte politica estera europea o - perdendoci nell'orgoglio, nella nostalgia o nella xenofobia - vedremo declinare il nostro ruolo nel mondo". Se è vero per il Regno Unito quel che ha rilevato il suo ministro degli esteri, il rilievo vale per ogni, anche grande, Stato membro dell'Unione Europea. E qui si tocca il nodo cruciale. L'Europa-potenza, l'Europa attore globale, resterà un'espressione retorica, una semplice enunciazione velleitaria, se l'Unione resterà prigioniera delle nostalgiche, impotenti pretese degli Stati nazionali, dei loro governi, delle loro classi dirigenti, delle loro forze politiche, nel tentativo di coltivare ciascuno sue antiche prerogative e irriducibili diversità, di conservare e far pesare ostruzionismi e poteri di veto all'interno dell'Unione.
L'Europa è rimasta in questi mesi assurdamente sospesa all'incerto consenso di tre, due, uno dei suoi Stati membri per la ratifica ed entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Non può, di fronte a decisioni fondamentali che l'attendono, rimanere sospesa al conseguimento dell'unanimità, rinunciando agli strumenti che l'esperienza della costruzione comunitaria e le norme del nuovo Trattato le offrono per andare avanti alla velocità e sui contenuti che una parte importante dei suoi Stati membri sia pronta a definire.
Liberarsi di quegli ormai fatali impedimenti e freni, dare nuovi sviluppi al processo di integrazione, significa pronunciarsi per un'Europa federale? Questa domanda, e le possibili risposte, rischiano di apparire un ritorno a dispute del passato tra schemi dottrinari inconciliabili. La prospettiva di una Federazione europea era stata nettamente indicata come approdo cui tendere nella Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, cioè nell'atto di nascita della Comunità. Nei decenni successivi essa era stata ancora evocata, poi cancellata ; aveva finito per prevalere l'idea che - per dirla con Jacques Delors - l'Europa non potesse che "avanzare mascherata". Il processo di integrazione europeo presentava caratteri di assoluta originalità, anzi unicità, non conosceva precedenti, come Unione di Stati e di popoli, o come possibile Federazione di Stati-nazione, quasi un ossimoro. Lo sbocco finale restava indefinibile. Così di fatto si è proceduto fino a ieri.
Ebbene, oggi da un lato questo modo di procedere appare sempre più insostenibile, di fatto e politicamente. Dall'altro intervengono, e non possono essere ignorate, provocazioni di alto livello, come quelle contenute nella sentenza del giugno scorso della Corte costituzionale tedesca : "L'Unione Europea - la cui libertà d'azione si è costantemente e considerevolmente accresciuta - ha in alcuni campi" (così recita la sentenza) "un profilo che corrisponde a quello di uno Stato federale", ma conserva delle procedure e una struttura che restano "nel solco di un'organizzazione internazionale", "seguono essenzialmente il principio dell'eguaglianza tra Stati", lasciano "la responsabilità primaria dell'integrazione nelle mani delle istanze costituzionali nazionali". Di qui la sollecitazione a sciogliere il nodo.
A me pare tuttavia che la questione vada affrontata non in termini di risoluzione - ripeto - di una vecchia disputa dottrinaria, ma in termini di risposta a una irresistibile e urgente necessità storica. O l'Unione Europea farà un balzo in avanti sulla via dell'integrazione affermandosi come soggetto unitario capace di leadership insieme con altri sull'arena mondiale, o "diventeremo spettatori" in un mondo guidato se non da un improbabile G2, Stati Uniti e Cina, da loro e altre potenze in impetuosa crescita.
E dunque : o un'Europa più unita, più integrata, più consapevole delle proprie virtù e potenzialità, più risoluta ad avanzare anche non tutta insieme, o il declino. Questa volta, forse, prospettare un'opzione così drammatica non è fuori luogo, e può suscitare una nuova ondata di convinzioni e sentimenti europeistici, può far scendere in campo nuove energie.