Signor Presidente,
Signor Direttore Generale,
Distinti Delegati,
Signore e Signori,
ringrazio il Direttore Generale Somavia per l'invito rivoltomi e per le calorose parole con cui mi ha presentato a voi e colgo l'occasione per rivolgere un saluto e un augurio al successore designato, Guy Ryder. Sentiamo molto vicina l'Organizzazione Internazionale del Lavoro : l'Italia è orgogliosa di ospitarne una sede a Torino.
Il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro, soprattutto per i più giovani, è un problema chiave per tutti noi. Più acuto in molti paesi in via di sviluppo a forte crescita demografica ; particolarmente destabilizzante nelle economie avanzate che soffrono di recessione o di fiacca crescita ; avvertito tuttavia anche da economie in forte e sostenuta espansione che non sempre riescono a tradurre la crescita in una creazione altrettanto sostenuta di posti di lavoro.
E' indubbio che la questione, sia di un adeguato tasso di occupazione sia di un rafforzamento dei diritti del lavoro, si pone in termini molto differenziati nelle diverse aree economiche mondiali ; in questo mio breve indirizzo io mi propongo di far riferimento a tali differenze e nello stesso tempo di mettere in rilievo il filo conduttore comune dell'impegno che la vostra Organizzazione può suggerire e ispirare.
Il punto di osservazione dal quale naturalmente mi colloco è l'area dell'Unione Europea, della quale l'Italia è parte integrante. Della crisi finanziaria ed economica, e della conseguente crisi occupazionale, che ha colpito in modo particolare l'Eurozona, il mio paese è gravemente partecipe ; ed esso sta di conseguenza compiendo ogni sforzo per uscire dalle difficoltà legate in particolare al peso del debito pubblico accumulato nei decenni passati.
Ma dinanzi alle difficoltà non solo dell'Italia, in seno alle istituzioni europee, come nel confronto tra i governi dei maggiori Stati membri dell'Unione, sta ormai acquisendo un sempre maggiore e scottante rilievo il tema di un rilancio della crescita, come indispensabile, urgente complemento delle politiche di consolidamento fiscale volte ad abbattere il peso dei debiti sovrani e ad allentare la pressione che su di essi esercitano i mercati finanziari.
Non esistono ricette facili per determinare una decisa ripresa della crescita economica, e se è ormai d'obbligo invocare una crescita sostenibile, s'intende per quali motivi ed aspetti questa qualificazione appare indispensabile. La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 e di lì propagatasi ad altre aree mondiali, assumendo connotati di estrema acutezza in seno all'Eurozona, ha messo a nudo la fragilità e i caratteri patologici dello sviluppo che in fasi precedenti si era prodotto in alcuni paesi su basi artificiose : non solo la dilatazione della spesa pubblica e dei bilanci pubblici, ma "bolle" finanziarie e "bolle" immobiliari poi clamorosamente scoppiate. Far ripartire la crescita su basi non precarie e malsane, su basi sostenibili finanziariamente nonché solide e durevoli in termini competitivi : è questa la direzione giusta in cui muovere, ma sapendo che si tratta di un approccio altamente impegnativo e necessariamente innovativo.
Una ripresa dell'attività produttiva, un ritorno ad apprezzabili tassi d'incremento del PIL nei paesi della zona Euro e segnatamente in un paese come l'Italia, non significa automaticamente anche un forte rilancio dell'occupazione, come risposta necessaria al problema della disoccupazione, specie giovanile. E' perciò da registrare con soddisfazione lo sforzo che si sta avviando per indirizzare in questo senso le proposte per il rilancio della crescita : come emerge dalla Comunicazione indirizzata il 18 aprile dalla Commissione Europea alle altre istituzioni dell'Unione.
Il titolo, e il contenuto, di tale Comunicazione sono significativamente : "Towards a job-rich recovery". Se l'obbiettivo formulato nella già definita Strategia 2020 è quello di elevare in Europa al 75% l'occupazione delle persone tra i 20 e i 64 anni, il duro punto di partenza è costituito dalla caduta, nel 2011, del tasso di occupazione in Europa al 68,9%, e dall'impennata, nel febbraio scorso, della disoccupazione oltre il 10%.
Correttamente, dunque, nel documento che ho ricordato, si prospetta un'ampia gamma di politiche specificamente rivolte a sostenere la creazione di occasioni di lavoro (Job Creation), e si formulano linee e obbiettivi di riforma del mercato del lavoro, giungendo a ipotizzare anche un vero e proprio mercato del lavoro europeo.
Tra i pilastri di una strategia di rilancio della crescita in Europa, mirata a un sostanziale aumento dell'occupazione come essenziale garanzia di equità, va indicata - accanto alle riforme strutturali - una decisa ripresa degli investimenti pubblici, in infrastrutture e in capitale umano, in ricerca e innovazione, specie nelle regioni in ritardo di sviluppo. E ciò richiede il ricorso a risorse europee, la mobilitazione di nuovi strumenti come obbligazioni europee destinate a progetti comuni, e insieme una più efficace programmazione e gestione dei già esistenti e sperimentati fondi strutturali dell'Unione.
Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con un ritorno a impianti teorici che trascurino i rischi di "una politica fiscale attiva finanziata in deficit", sopravalutino "l'effetto immediato della spesa pubblica sulla domanda aggregata", attribuiscano una funzione positiva all'inflazione in rapporto alla crescita, sottovalutino "l'importanza delle frizioni finanziarie e il ruolo del credito e della moneta", e dunque le potenzialità della politica monetaria. Nei confronti di simili ricadute in certi impianti teorici e approcci operativi del passato, ha messo in guardia di recente il Prof. Mario Draghi, con un sofisticato intervento in sede accademica, che gli ha anche offerto l'occasione per una rigorosa puntualizzazione delle scelte operate dalla Banca Centrale Europea sotto la sua presidenza.
Occorre in effetti perseguire la crescita attraverso una corretta combinazione di riforme strutturali, di consolidamento fiscale e di rilancio mirato degli investimenti pubblici, e soprattutto riprendere l'impegno a coltivare le finalità e i valori dell'integrazione europea. Come dice il Trattato, "l'Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell'Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale." Tale era anche lo spirito in cui venne intrapresa nel 2000 la "Strategia di Lisbona", pur sfociata in esiti deludenti.
In realtà, il modello europeo di sviluppo e di welfare è più che mai posto dinanzi a sfide e prove assai ardue per effetto di profonde trasformazioni verificatesi su scala mondiale negli ultimi decenni. In estrema sintesi: "la concorrenza crescente dei paesi emergenti, la riorganizzazione dei processi produttivi su base globale, la rapidità dell'innovazione, la crescente frammentarietà dei percorsi lavorativi sempre meno legati al riferimento di un «posto fisso», la maggiore instabilità dei nuclei familiari, l'abbassamento della fertilità, la flessione prospettica delle forze di lavoro, l'invecchiamento della popolazione. La configurazione dei rischi affrontati dagli individui nel corso della loro vita è mutata significativamente".
Di qui la rivisitazione ed evoluzione, in diversi paesi, dei sistemi di protezione sociale : necessità a cui nessuna parte può sottrarsi, per non veder messo a rischio, nei suoi stessi fondamenti, il modello civile che nella seconda metà del Novecento ha fatto dell'Europa unita un punto di riferimento mondiale.
L'esperienza europea costituisce naturalmente un esempio non facilmente trasponibile, da nessun punto di vista, in altri contesti continentali, ma certamente ricco di insegnamenti e suggestioni. E all'Europa, per quanto oggi largamente ripiegata sulla ricerca di soluzioni alla sua crisi interna, spetta dare un contributo lungimirante e solidale sui temi della crescita, del lavoro e dei diritti del lavoro quali si pongono in realtà complesse e a loro volta molto critiche. Così, ad esempio, in quelle realtà dell'area mediterranea e dell'Africa che più sono attraversate da fermenti politici e sociali nuovi. Se nei paesi della "primavera araba" la disoccupazione giovanile è nel recente periodo cresciuta di cinque punti, bisogna essere consapevoli - lo deve essere l'Unione europea - delle ricadute che questo dilagare dell'esclusione e della povertà tra le giovani generazioni può avere su ogni tentativo e speranza di stabilizzazione su basi democratiche di quei movimenti sorti nel segno del rigetto delle dittature e di coraggiose rivendicazioni di libertà e dignità.
Nello stesso tempo, dagli impetuosi processi di trasformazione e di crescita che specie nell'ultimo decennio hanno fatto emergere grandi paesi dell'Asia e dell'America Latina come potenze trainanti dell'economia mondiale, sono scaturiti problemi cruciali per la qualità delle condizioni di lavoro e dei diritti dei lavoratori in quegli stessi paesi e, di rimbalzo, nei paesi europei più avanzati socialmente. Nell'area del vecchio G7, il cui peso nella produzione e distribuzione della ricchezza mondiale era determinante, si erano concentrate conquiste di welfare che sono state sempre di più sottoposte, negli ultimi tempi, alle tensioni di una dirompente competizione globale. E' allora fatale - dobbiamo domandarci - rinunciare, in paesi come l'Italia, a conquiste di benessere faticosamente raggiunte nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, rinunciarvi per poter reggere le nuove ardue sfide di una competitività che non conosce frontiere? La risposta non può essere improntata a fatalismo e rassegnazione.
In effetti, quelle sfide sollecitano innovazioni profonde su tutti i piani nei paesi di più antica industrializzazione e più diffuso benessere materiale : e senza dubbio non tutte le conquiste del passato possono essere considerate ancora sostenibili e nemmeno egualmente valide rispetto a nuove concezioni e misurazioni del benessere e della qualità della vita. Significativo è ad esempio che in varii paesi l'accento si sia spostato verso scelte che, prendendo atto di tendenze a un'inevitabile maggiore flessibilità e mobilità nell'impiego della forza lavoro, valorizzano la formazione lungo l'arco della vita ed efficienti politiche di ricollocamento, legate a nuove opportunità di occupazione.
Ma è nello stesso interesse dei nuovi paesi emergenti, oltre che necessario ai fini di un equilibrato sviluppo globale, che ci si muova nel senso della definizione di "social protection floors", sotto forma di una Raccomandazione. E' quel che la vostra Conferenza si accinge domani ad adottare. L'Organizzazione Internazionale del Lavoro può su questo terreno riaffermare il peculiare ruolo storico che ha fin dagli albori nel sistema delle Nazioni Unite.
Più in generale, il filo conduttore comune del nostro impegno, dovunque ciascuno di noi sia chiamato ad operare, anche nelle condizioni più diverse, dev'essere quello di una forte, convinta, appassionata riaffermazione del valore del lavoro. Anche per superare gli ostacoli rappresentati dalla complessità delle situazioni e delle scelte da compiere sotto il profilo giuridico, tecnico, operativo, quel che appare decisivo è un risoluto sforzo di rilancio delle grandi idealità che le tragiche esperienze della prima metà del secolo XX ci spinsero ad abbracciare e che trovarono il loro suggello nella nascita e nell'evoluzione delle Nazioni Unite.
L'inaudita depressione e la dilagante disoccupazione in cui sfociò la crisi del 1929 avevano prodotto sul piano politico l'instaurarsi di regimi autoritari e bellicisti in Germania e in Giappone, mentre si consolidava quello già esistente in Italia. Dalla terribile lezione delle dittature e delle aggressioni nazifasciste, e infine della devastante Seconda Guerra Mondiale, le forze democratiche vittoriose e ovunque risorte trassero l'imperativo di un impegno deciso e concreto a perseguire politiche di sviluppo e di giustizia sociale.
E in modo particolare in Europa occidentale, con il decisivo contributo degli Stati Uniti, si aprì un trentennio di eccezionale avanzamento e progresso, quello che venne chiamato "l'età dell'oro" dello sviluppo capitalistico su basi democratiche. Per l'Italia fu "il miracolo economico" culminato negli anni 1958-63. E la direttrice fondamentale che venne assunta, quella in cui si riassunse l'insieme dei progressi senza precedenti che si venivano allora dispiegando, fu la "piena occupazione".
E' un fatto che negli ultimi decenni, la "piena occupazione", il "pieno impiego" - benché sancito costituzionalmente, anche nei Trattati europei come ho ricordato - non abbia più avuto uno spazio primario né come parola d'ordine né come obbiettivo delle politiche pubbliche. Ebbene, è necessario che torni ad averlo, pur nella consapevolezza di come esso risulti oggi un obbiettivo ben più problematico e complesso che negli anni '50 e '60 dello scorso secolo in Europa occidentale. Non dobbiamo esitare : non possiamo contrassegnare i traguardi da raggiungere solo in termini di crescita del PIL, o di maggiore stabilità finanziaria.
Perché, come ha scritto un compianto grande economista italiano, Federico Caffè, "il pieno impiego non è soltanto un mezzo per accrescere la produzione ... è un fine in sé, perché porta al superamento dell'atteggiamento servile di chi stenta a procurarsi un'opportunità di lavoro o ha il continuo timore di esserne privato". Il conseguimento di una situazione di pieno impiego va dunque misurato anche e soprattutto in termini di "dignità umana". O, come ha detto un nostro sensibilissimo scrittore, "nel lavoro è l'esistenza stessa dell'uomo, e la sua storia ; il lavoro è la libertà".
Ma la libertà e la dignità dell'uomo, la libertà e la dignità della persona, non sono forse tra gli ideali supremi dell'Europa e delle Nazioni Unite?