Intervento del Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
al convegno "La Costituzione domani nel 60° anniversario della Carta fondamentale della Repubblica"
Venezia, 18 settembre 2008
Al 60° anniversario della Costituzione repubblicana sono state dedicate, in gran numero e in forme assai varie, iniziative succedutesi nel corso di tutto il 2008. Iniziative istituzionali, elaborazioni e ricerche, incontri pubblici, conferenze e dibattiti nelle scuole e nelle università, rappresentazioni teatrali e trasmissioni televisive. Credo si possa trarre qualche motivo di soddisfazione ; e considero quello di oggi quasi un momento conclusivo della lunga serie di eventi che ho ricordato. Non è poi per me senza significato che esso abbia luogo - sotto l'egida della Fondazione intitolata a Gianni Pellicani, a me sempre così caro nel ricordo - qui a Venezia, nel cuore di una regione profondamente trasformatasi e divenuta, dai primi anni 2000, protagonista di un nuovo dinamismo politico-istituzionale.
Nel discorso tenuto nel gennaio scorso dinanzi al Parlamento, sostenni che la ricorrenza dell'entrata in vigore della Carta costituzionale non potesse risolversi in "mera occasione celebrativa" : un rischio -sottolineato anche dagli oratori che mi hanno preceduto - che non è difficile evitare sol che si abbia presente la natura stessa di quel che accadde il 1° gennaio 1948. Non il compiersi di un avvenimento storico in sé concluso, ma il nascere di "qualcosa" - come ebbi a dire - "che ha continuato a vivere, è vivo e ha un futuro - una tavola di principi e di valori, di diritti e di doveri, di regole e di equilibri, che costituisce la base del nostro stare insieme animando una competizione democratica senza mettere a repentaglio il bene comune."
E proprio perché di questo si tratta, si pone oggi l'esigenza di un rinnovato, consapevole ancoraggio alla Costituzione : esigenza che appare tanto più forte quanto più si avverta un pericolo di disorientamento della comunità nazionale, per l'indebolirsi della sua coesione e del suo tessuto ideale e civile. La Carta del '48 è sotto questo profilo una riserva preziosa su cui far leva, purché ci si impegni innanzitutto a "bucare il velo d'ignoranza che la circonda" : facendone conoscere e studiare il testo, facendone cogliere le virtualità e gli stimoli critici. E' un impegno che deve assolutamente continuare, ben oltre il 60° anniversario della Costituzione repubblicana.
Impegno di riflessione la più aperta, come si conviene a un prodotto storico operante, di cui nessuno può fare "un'icona". Della Carta del '48 si deve però innanzitutto registrare - e questo non è un omaggio rituale - la tenuta e la vitalità di fronte all'urgere e al compiersi del processo di grande trasformazione e modernizzazione che l'Italia ha conosciuto nei decenni successivi. La Carta ha saputo presiedere a un tale processo, accompagnarne anche le molteplici tensioni, grazie, tra l'altro, alla saggezza e lungimiranza di formulazioni che vennero pensate in modo da poter risultare non chiuse ma idonee al recepimento di istanze e sollecitazioni poco o per nulla prevedibili al momento della definizione di quel testo.
E' stata dunque possibile, e si è compiuta un'evoluzione : il dettato costituzionale è passato attraverso non una manipolazione, ma un'interpretazione intelligente, non dogmatica, attenta alle condizioni e sensibilità nuove della società e a nuovi contesti internazionali. Fondamentale a questo proposito è stato l'assecondare il processo di costruzione europea di cui l'Italia si è fatta attivamente partecipe : non è eccessivo parlare di una vera e propria integrazione tra gli indirizzi della Costituzione repubblicana e quelli dei Trattati europei.
E' questa concezione non statica della Costituzione che va affermata, se si vuole valorizzarne il messaggio e la fecondità : facendo attenzione, certo, a non indulgere ad una improduttiva mitizzazione ma anche a non cedere alla retorica del "superamento", quasi per limiti di età, della Carta del '48. Nei confronti della quale non ci interessano i lip service, gli omaggi a fior di labbra, ma egualmente non portano da nessuna parte gli atteggiamenti liquidatori.
Quel che ci interessa è come far vivere in questa fase storica la Costituzione repubblicana, in rapporto a domande della società e attese dei cittadini che non hanno finora trovato sbocco. Esse richiedono sforzi ulteriori sul piano dell'analisi e dell'interpretazione del dettato costituzionale, scelte di riforma o di più conseguente attuazione di norme insoddisfacenti o rimaste lettera morta.
1) Scelte di riforma : sono persuaso che esse siano da perseguire e possano essere condivise, se mirate, volte specificamente a garantire la soluzione di alcuni problemi da tempo sul tappeto, come ad esempio quello dell'abbandono del bicameralismo ancora vigente e dell'istituzione di una Camera delle Regioni o delle autonomie. Sono invece egualmente convinto che ripercorrere la strada, già risultata impraticabile, di una riscrittura complessiva, sia pure della sola seconda parte della Carta del '48, sarebbe un tentativo velleitario e dannoso. Che la Costituzione non sia intoccabile lo dimostra il semplice fatto che tra il 1963 e il 2005 sono stati modificati, sostituiti, aggiunti 38 articoli o commi, anche di notevole rilievo. Sto solo mettendo in guardia dal rischio di nuove, defatiganti e inconcludenti, progettazioni di riforma globale della Carta.
2) Scelte di più conseguente attuazione di norme già fissate in Costituzione : qui il discorso cade in particolare sul Titolo V, riformato nel 2001. Nessuna parte politica può negare che sia venuto il momento di entrare nel merito, stringere il confronto, cercare impostazioni concrete e convincenti per dar vita al sistema disegnato nell'articolo 119, ormai comunemente classificato come "federalismo fiscale".
Approfondimenti o ripensamenti su varii aspetti del Titolo V sono legittimi, possono da qualche parte considerarsi necessari, ma debbono risolversi ormai in una meditata e ponderata impostazione della legge voluta dall'articolo 119. Questo non è solo un dovere di attuazione costituzionale, ma è un imperativo di chiarezza e di razionalizzazione che non può essere ulteriormente eluso se si vuole giungere a un assetto efficiente e trasparente dei pubblici poteri e con essi degli interventi centrali e locali necessari nell'interesse dei cittadini, dello sviluppo economico e sociale e della vita democratica.
Voglio dire francamente questa sera che se si mettono a confronto gli orientamenti - in materia di federalismo fiscale - annunciati dall'attuale governo, quelli presentati in Parlamento dal precedente governo, quelli formulati dalle Regioni e quelli delineati da forze dell'opposizione, si può constatare obbiettivamente l'emergere di assonanze e convergenze significative tra le rispettive impostazioni. Non sono ovviamente da sottovalutare le persistenti distanze su punti rilevanti e le difficoltà insite nella stessa natura di una legge delega. Ma credo non si debba essere pessimisti sulle possibilità di un approdo largamente condiviso, se il confronto verrà avviato e condotto, in Parlamento e in altre sedi di concertazione istituzionali, con metodo accorto, con reciproca attenzione, con volontà di avvicinamento tra i diversi punti di vista, senza nervosismi e forzature, e con quel senso della gradualità che in questa materia è indispensabile.
Sappiamo peraltro che qualsiasi discussione di merito, puntuale anche tecnicamente, va illuminata da una visione complessiva della vicenda storica e dell'assetto attuale dell'ordinamento della Repubblica, e quindi del futuro che gli si vuole aprire. Ed è a ciò che si sono riferite essenzialmente le relazioni dei professori Bertolissi e Duso.
Da un lato, la Costituzione, i suoi principi e valori, le sue scelte e il loro possibile svolgimento, dall'altro la realtà dell'organizzazione effettiva dei poteri ed apparati pubblici, quel che è rimasto o è divenuto lo Stato nei decenni repubblicani.
L'impianto costituzionale non è stato toccato per quel che riguarda la forma di governo. Parlamentare, come si sa, ma senza che in Assemblea Costituente si riuscisse a disciplinarla, come venne proposto, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell'azione di governo : questione che è rimasta aperta e andrebbe riesaminata, nei suoi termini concreti, senza tornare ad accendere un vano conflitto sul cambiamento della forma di governo.
La forma di Stato sancita dalla Carta del '48 è stata invece modificata, sul piano costituzionale, dalla riforma del Titolo V. Ma a parte la mancata attuazione, fino a questo momento, di tale riforma - ne ho parlato poc'anzi - quanto è rimasto contraddittorio lo stesso impianto costituzionale o, rispetto ad esso e alle sue promesse, il modo di essere effettivo dello Stato italiano? E quanto di questa contraddizione è imputabile a letture e interpretazioni del testo costituzionale, magari suggerite da sue aporie e ambiguità?
Si tratta di domande complesse, cui non si confanno risposte sommarie, ma che stimolano ancora pacate riflessioni. Io mi limiterò a qualche considerazione personale, suggeritami dalla lunga esperienza vissuta in ambiti politici e istituzionali.
L'unità e indivisibilità della Repubblica resta valore storico e principio regolatore fondamentale, di certo non negoziabile, che dubito possa avere operato da "narcotico", come qualche volta si è detto, ma che non è stato colto - molti sono gli esempi che lo confermano - nella sua inscindibilità dall'impegno, sancito nello stesso articolo 5 della Carta, a "riconoscere e promuovere" le autonomie locali, ad adeguare la legislazione "alle esigenze dell'autonomia e del decentramento". La corrente di pensiero federalista, che dal Risorgimento si era proiettata tra le componenti della scuola democratico-antifascista (forse bisognerebbe, qui in Veneto, recuperare e valorizzare maggiormente il contributo di Silvio Trentin) non ebbe gran voce nell'Assemblea Costituente. Ma se si può storicamente comprendere l'assillo - in quei primi anni successivi alla terribile lacerazione dell'"Italia tagliata in due" - di consolidare una appena salvata unità nazionale, è importante osservare che proprio per mettere al riparo quella unità si scelse allora di dar vita alla assoluta novità delle cinque Regioni a Statuto speciale, costituzionalizzandole.
Fu quello un segno inequivoco della consapevolezza largamente condivisa, di fronte a insidie separatiste e a delicati contenziosi internazionali, che una riforma in senso autonomistico dello Stato fosse divenuta condizione per riaffermarne l'unitarietà. Superati i momenti critici dell'immediato dopoguerra, quella consapevolezza finì quasi per smarrirsi. E la tardiva attuazione, nel 1970, delle Regioni a Statuto ordinario, sarebbe poi risultata un'occasione fondamentalmente perduta per una compiuta trasformazione, e una chiara riorganizzazione, in senso autonomistico, dei poteri e degli apparati pubblici.
Quel che occorre oggi - in una fase cruciale di confronto sul federalismo costituzionale e sulla riforma dell'attuale bicameralismo parlamentare - è proprio la piena riacquisizione di una visione, che era in nuce nella Costituzione del 1948, dell'unità nazionale come inseparabile, e destinata a trarre maggior forza e consenso, da un'articolazione pluralistica e autonomistica.
Si tratta di un impegno di grande portata e respiro da affrontare, insieme con la discussione più vicina da condurre sul terreno legislativo in sede parlamentare. Parlo di un impegno politico e culturale, che può dare un contributo prezioso di chiarificazione anche nella ricerca delle soluzioni per il federalismo fiscale. Ed è giusto collocare quell'impegno di riflessione e di dibattito nel più ampio orizzonte europeo, fatta salva peraltro la peculiarità del processo di integrazione europea e dei dilemmi che esso propone anche per aver presentato, fin dall'inizio, tratti costituzionalistici accanto a tratti internazionalistici.
In Italia, deve porsi in particolare un forte accento sul rapporto tra un più coerente disegno evolutivo in senso autonomistico e federalistico dell'ordinamento della Repubblica, e il superamento di quel persistente, e perfino aggravato, divario tra Nord e Sud che denuncia la storica incompiutezza dell'unificazione nazionale. Ciò richiede la più chiara manifestazione di volontà nel combattere chiusure ed egoismi nelle regioni più sviluppate, nel tener fede concretamente al principio di solidarietà, e nel chiamare al tempo stesso le regioni del Mezzogiorno, alla pari di tutte le altre, alla prova della responsabilità per l'uso economico e il rendimento qualitativo delle risorse pubbliche, nazionali ed europee.
Desidero concludere richiamando quel che ha detto il professor Bertolissi : "La Costituzione del domani credo debba essere questa che già oggi, invariata nel suo dettato, è in grado di assicurare un futuro a coloro che la eleggono a loro guida e presidio". Sì, così bisogna sentirla e farla vivere in sintonia con quel che è cambiato e cambia in noi e attorno a noi.
Che così si dovesse intendere la Costituzione, lo aveva ben inteso Piero Calamandrei, le cui posizioni in Assemblea Costituente furono tra le più problematiche e travagliate, ma che fu poi tra i più appassionati protagonisti della denuncia di ogni mancata attuazione della Costituzione. Egli sapeva che a conclusione di un dibattito pur segnato da serie divergenze e da soluzioni controverse, era stata approvata una Carta in cui c'era tutta la nostra storia di italiani e in pari tempo il seme del nostro comune futuro. Perché essa fu in definitiva quel che egli aveva auspicato dicendo : "... è un errore formulare gli articoli della Costituzione con lo sguardo fisso agli eventi vicini, (...) alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell'immediato avvenire. (...) La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope".
Un valente studioso, citando di recente quel passaggio del discorso di Calamandrei alla Costituente, lo ha commentato con queste parole, che vorrei far mie: "La Costituzione repubblicana per fortuna è nata presbite. Il nostro compito di eredi di questo grande patrimonio è di salvaguardarlo dai miopi". Spero che ci si possa riuscire.