Vittorio Veneto 04/11/2008

Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per le celebrazioni del 90° Anniversario di Vittorio Veneto

INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
GIORGIO NAPOLITANO
Celebrazioni del 90° anniversario di Vittorio Veneto

Vittorio Veneto, 4 novembre 2008

Quest'anno la ricorrenza del 4 novembre sta suscitando un nuovo fervore di iniziative e di dibattiti. E se ne possono comprendere i motivi. Il lungo spazio storico che ci separa dalla conclusione - vittoriosa per l'Italia - della prima guerra mondiale, ci consente una visione finalmente matura di quel passaggio drammatico della nostra vita nazionale, ci induce a coglierne significati e valori che fanno ormai tutt'uno con la coscienza del cammino percorso da allora dal nostro paese, dall'Europa, dal mondo, con la coscienza delle responsabilità cui nel presente siamo chiamati a far fronte.
Non è dunque formale, e meno che mai - in nessun senso - strumentale la celebrazione che promuoviamo, e che sentiamo come necessaria e giusta, del novantesimo anniversario di quella grande, luminosa giornata del 1918. E' una celebrazione che vediamo innanzitutto come occasione di rinnovato omaggio alla memoria dei seicentomila italiani che caddero, bruciati in quella spaventosa fornace bellica : verso di essi la nazione italiana ha un debito inestinguibile, che dobbiamo continuare, sempre, a onorare. Nello stesso tempo, forte è in noi il senso dell'occasione da cogliere per riflettere ancora sulla prova che diedero di sé, in condizioni così dure, il nostro paese e il nostro popolo, su come ne uscirono cambiati, su quali effetti e sviluppi positivi si sarebbe potuto contare nel futuro, al di là delle convulse vicende che seguirono e che segnarono per oltre un ventennio la società italiana.
Proprio nel riaprirsi in queste settimane del dibattito pubblico sulla prima guerra mondiale e in special modo sulla sua fase conclusiva, molte voci di studiosi si sono levate per mettere in risalto l'effetto di identificazione del popolo con la nazione, di conquista del senso dell'unità nazionale, che la prima guerra mondiale, per come fu vissuta in Italia, ci ha lasciato in preziosa eredità.
Ricordare e valorizzare tutto questo non ha nulla a che vedere con esaltazioni retoriche, di stampo nazionalistico e militaristico, che qualcuno sembra temere. Non è all'ordine del giorno la riproposizione anacronistica delle dispute del 1914 e '15 sull'intervento dell'Italia in guerra, sulle motivazioni e le modalità di quell'intervento, sul rovesciamento delle alleanze e sulla impreparazione militare che segnarono per il nostro paese l'inizio di quella guerra. Questi sono temi consegnati da tempo all'approfondimento degli storici : così come l'analisi del composito insieme delle ispirazioni e delle forze - politiche, culturali, morali - che sostennero l'entrata dell'Italia in guerra.
Sappiamo quanto si sia parlato e scritto su una visione liberale e risorgimentale ("idealizzata" in qualche modo) di quella scelta, e su una visione nazionalistica e perfino imperiale che venne dal lato opposto. Ma da parte delle istituzioni non si vuole oggi - non si può volere - l'attribuzione del crisma dell'ufficialità a qualsivoglia interpretazione storica.
Torniamo allora alla constatazione di fondo, che nessuno può onestamente denunciare come retorica e addirittura come esaltatrice e glorificatrice della guerra in quanto tale. Lo dirò con le parole di uno studioso antiretorico per eccellenza, Giuliano Procacci, autore di un esemplare profilo di storia degli italiani :
Con la guerra - egli ha scritto - "vastissimi strati sociali, il cui mondo era stato sino allora circoscritto entro un orizzonte provinciale, venivano costretti per forza delle cose a prendere coscienza del loro destino comune e dell'esistenza di una collettività nazionale. L'Italia umile e provinciale, l'Italia di coloro per cui il problema primo era quello di tirare avanti e che si muovevano dal loro paese e dal loro campanile solo per andare in America, si trovò coinvolta nella guerra e i suoi figli poveri seppero di essere cittadini solo quando si trovarono vestiti da soldati e furono mandati a combattere nelle trincee. Si può dire anzi che un'opinione pubblica nazionale, nel senso più largo del termine, nacque in Italia solo con la prima guerra mondiale, la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano."
Così lo storico. E si può ben aggiungere che quella grande e durissima esperienza culminò nella reazione al disastro di Caporetto, nella resistenza sul Piave e sul Grappa, nell'offensiva di Vittorio Veneto. Nel bel convegno svoltosi giorni fa alla Camera dei Deputati per iniziativa del suo Presidente, il professor Monticone ha sottolineato come la sconfitta di Caporetto, "con l'invasione del vasto territorio friulano e veneto sino alle linee del Piave e del Grappa, segnò un radicale cambiamento nel carattere della guerra italiana". Fu messa in forse l'integrità nazionale, mentre l'obbiettivo era stato quello di completarla ; si delineò "la possibile caduta nell'orbita del predominio delle Potenze centrali" contro cui si era dichiarata la guerra persino con propositi espansionistici. Si diffuse la consapevolezza "del dramma e del rischio per tutto il Paese". L'allarme fu generale, l'appello "a tendere tutte le forze a un unico fine" venne anche da grandi personalità inizialmente inclini al neutralismo : "la guerra - scrisse nel novembre 1917 Benedetto Croce - che finora solo in parte era nostra, ora si fa veramente nostra".
Di qui una straordinaria risposta, fino alla vittoria che fu conseguita insieme dai soldati e dai cittadini, dalle crocerossine al fronte e da figure umili ed eroiche come le portatrici di Carnia. Una vittoria resa possibile, anche, da uno sforzo senza precedenti di mobilitazione industriale, che ebbe per protagonista una moltitudine di operai. Né si può dimenticare il prezioso sostegno che alla patria in guerra venne dalle donne rimaste a presidio delle famiglie. L'Italia uscì in questo senso dalla prova del 1917-18 cambiata moralmente, forte di un'acquisita comunanza di destino più che di uno status di grande potenza, riunita - con la liberazione di Trento e Trieste - entro i confini sognati dai patrioti del Risorgimento.
Celebrare questo storico risultato non significa nemmeno per un momento dimenticare o tacere errori fatali, responsabilità politiche e militari, cui si debbono far risalire costi umani e rischi estremi imposti al paese. Celebrare la vittoria del 4 novembre ed esaltare i sacrifici e gli eroismi che la prepararono e la forgiarono, non significa nemmeno per un momento edulcorare le atrocità della guerra, le sofferenze subìte, l'immenso prezzo di vite umane pagato dal popolo italiano. Appartengo alla generazione i cui padri combatterono per anni nelle trincee della prima guerra mondiale: essi hanno trasmesso a ciascuno di noi una testimonianza incancellabile di orrore per la guerra e di volontà di resistervi, di vivere e di far vivere la patria italiana.
In un breve libro scritto al ritorno dal servizio prestato al fronte come ufficiale di complemento, mio padre scrisse: "si è immensamente sofferto, ma si ritorna migliori". "Tutto soffersero coloro che fecero la guerra, tutto sacrificarono, ma i sopravviventi hanno ereditato un senso nuovo della vita".
E tra i ricordi che egli consegnò a quelle pagine, permettetemi ancora di citare questo : "Non dimentico. A Buso del Termine, sull'Altipiano di Asiago, linea di partenza per Cima di Valbella, dietro quella possente corazza di rocce frammentarie, diseguali, massicce e sbilenche, così duramente e pertinacemente battuta dall'artiglieria nemica e così variamente saggiata e valicata dai pugnaci combattimenti, mi si riempiva la gola di un groppo di lacrime nel seguire i nostri umili fanti, tutti intenti a tracciare scavare comporre, nel luogo che pareva il più coperto, tombe per i resti di poveri caduti. Essi riuscivano, con quelle mani rudi, che eran passate dall'impiego della vanga e del ronciglio a quello della bomba a mano e del fucile; riuscivano a fare delle piccole opere di bellezza" ... "Bisognava seguirli, quei fanti, che non si svestivano da mesi, e vivevan la vita più aspra, e da un momento all'altro dovevano salire alla contesa linea di Monte Valbella." Si, per la mia generazione la storia della Grande Guerra è anche fatta di memorie familiari e di richiami affettivi.
Fu - lo ripeto con le parole che ho già citato - la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano : e i suoi frutti non furono annullati dalla convulsa crisi sociale e politica che vi seguì, e che vide l'Italia partecipe per vent'anni dell'era dei totalitarismi in Europa, soggetto e vittima di predicazioni belliciste e di ambizioni o illusioni imperiali.
Non fu annullato il prezioso frutto di una nuova coscienza nata tra gli italiani : l'esser parte - tutti - di una collettività nazionale, il riconoscersi nel valore dell'unità nazionale. E questo è un retaggio che dobbiamo aver caro. Un retaggio identificabile con quell'amor di patria, e quel senso della dignità nazionale, che sorresse i nostri combattenti a El Alamein - l'ho appena ricordato dinanzi al sacrario dedicato a quelle migliaia di caduti -, che dopo l'8 settembre 1943 ispirò la disperata resistenza delle nostre forze a Cefalonia, che animò nell'aspra fase finale della seconda guerra mondiale il rinato esercito italiano a Mignano Monte Lungo o i militari impegnatisi accanto alle formazioni partigiane nella guerra di Liberazione.
Ci muoviamo oggi in un paese e in un mondo radicalmente cambiati. Non c'è più lo spettro della guerra sul territorio europeo. Si è spento il focolaio della prima e della seconda guerra mondiale, entrambe esplose e sanguinosamente combattute nel cuore dell'Europa. C'è stata riconciliazione nella pace e nella democrazia, via via rimuovendosi l'ipoteca e la minaccia rappresentate dal persistere di vecchie ideologie di irriducibile contrapposizione. Che cosa sia diventata l'Europa ce lo hanno detto in questi decenni alcune immagini-simbolo : il rappresentante illuminato della resistenza al nazismo e della nuova coscienza nazionale della Germania democratica che cade in ginocchio dinanzi al monumento ai caduti del ghetto di Varsavia, il presidente francese e il cancelliere tedesco che si tengono per mano onorando insieme la memoria degli eroi e delle vittime del massacro sul campo di battaglia di Verdun.
Questo è diventata l'Europa, e con essa l'Italia. Repubblica democratica fondata sul lavoro. Non si evochino, oggi, nel nostro paese, per amor di polemica politica o vetero-ideologica, spettri che nessuno vuole più resuscitare. E' legge per tutti la Costituzione repubblicana: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" - "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino" - "L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica" - "L'Italia consente ... alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni e ... favorisce le organizzazioni rivolte a tale scopo".
Sono queste le tavole del nostro impegno comune. Non c'è più spazio né per il militarismo né per l'antimilitarismo. E' sancita una cultura della pace, di cui è parte l'attaccamento alla Patria e il dovere di difenderla, e di cui è parte anche il nostro sostegno alle organizzazioni internazionali deputate a garantire pace e giustizia nel mondo e alle decisioni che esse possono assumere a questo fine. E si è tracciata così la nuova visione e funzione delle nostre Forze Armate, che in nome della Costituzione oggi festeggiamo e a cui rendiamo omaggio per l'impegno che pongono, con spirito di sacrificio e intelligenza, fuori dal suolo italiano, al servizio di missioni per la pace e la sicurezza internazionale.
Come ha ben detto il Presidente Fini nel recente Convegno già da me richiamato, "è impossibile oggi pensare la patria senza la libertà e i diritti del cittadino", "la nazione va ancorata alla democrazia, e questa va legata, a sua volta, al valore della nazione". E' così che dobbiamo calarci più che mai nella prospettiva dell'Europa unita ; abbiamo bisogno del massimo di coesione nel riconoscerci in un patrimonio comune di storia e di valori e nell'operare unendo le nostre forze, per poter dare un valido contributo alla costruzione europea e far valere il nostro ruolo. Non c'è avvenire per il nostro paese senza tener ferma e far vivere l'unità nazionale, in seno alla nuova Europa di cui siamo parte integrante.
E' qualcosa che sentiamo in modo particolare nel momento difficile che l'Italia, l'Europa e il mondo stanno affrontando. La libera competizione sociale e politica democratica, il libero confronto ideale e culturale, il libero esercizio dei diritti individuali e collettivi, compreso il diritto al dissenso e all'opposizione, sono pienamente compatibili con il senso di appartenenza alla comunità nazionale che anche attraverso il drammatico cimento della prima guerra mondiale abbiamo sempre di più riconosciuto e vissuto come fondamento del nostro essere cittadini italiani. Un senso di appartenenza che implica consapevolezza della complessità delle sfide che stanno oggi dinanzi all'Italia e dunque della necessità di non sfuggire al dovere dell'impegno comune e solidale, al di là di ogni legittima e fisiologica dialettica di posizioni, per salvaguardare il tessuto unitario del paese e garantirgli un futuro migliore.
A questi pensieri, solo apparentemente così lontani dalla lezione di quegli avvenimenti, ci induce la celebrazione del 90° anniversario della conclusione vittoriosa della prima guerra mondiale. Pensieri di pace, di amor di patria, di responsabilità e unità nazionale.
Viva Vittorio Veneto!
Viva le Forze Armate!
Viva l'Italia!