Cagliari, Teatro lirico 20/02/2012

Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione del Convegno “Il contributo della Sardegna all’Unità d’Italia”

Saluto e ringrazio cordialmente i rappresentanti delle istituzioni e delle università, tutte le rappresentanze e le autorità presenti e, in modo particolare, i Sindaci. E saluto i tanti giovani e studenti che anch'essi hanno voluto partecipare.

Sono qui per le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, e non poteva mancare il tassello così peculiare e ricco del contributo della Sardegna. Mi complimento per le iniziative che si sono già svolte nel corso dell'ultimo anno e di cui ci ha dato conto il professor Accardo. Nello stesso tempo sono qui perché ho considerato mio preciso dovere rappresentare l'attenzione delle istituzioni per la particolare, difficilissima crisi che sta attraversando la regione Sardegna: come istituzione, ma soprattutto come realtà economica e sociale tra le più colpite oggi in Italia dalla crisi che ha investito il nostro Paese, l'Eurozona e in larga misura la stessa economia mondiale.

A questa crisi economica e sociale della Sardegna hanno fatto cenno il Sindaco Massimo Zedda, la Vice Presidente del Consiglio Provinciale Angela Maria Quaquero, il Presidente della Regione Ugo Cappellacci. Vi farò cenno anche io. Contiamo poi di approfondire il discorso questo pomeriggio, in un incontro con le rappresentanze sindacali ed economiche.

Innanzitutto, negli interventi che abbiamo ascoltato sono stati evocati i nomi di eminenti personalità sarde, a cominciare da quella di Antonio Gramsci, cui ho reso omaggio qualche anno fa a Ghilarza. È una personalità che è rimasta intimamente e irriducibilmente sarda, legata alla tradizione e all'esperienza sarda, ma che nello stesso tempo ha lasciato un'impronta profonda nella vicenda politica e nella cultura nazionale, europea ed extraeuropea.

Voglio poi riferirmi in modo più specifico a personalità che ho avuto modo di conoscere e di incontrare. Innanzitutto ai miei predecessori, il Presidente Segni e il Presidente Cossiga. Vorrei ricordare il Presidente Segni anche per la sua opera di ministro per la Riforma agraria. Con lui, appena diventato Presidente del Consiglio, io che ero alle mie prime armi in Parlamento ebbi già modo di confrontarmi a metà degli anni Cinquanta. Mi riferisco quindi a personalità certamente più vicine alla mia generazione, come Francesco Cossiga: entrammo insieme in Parlamento ancor meno che trentenni o appena trentenni, fummo per qualche periodo i parlamentari più giovani. Naturalmente, quelli sono record che passano presto: lo sa il sindaco Zedda, che ha avuto soltanto per qualche tempo il primato di Sindaco più giovane. Sono primati che si cedono volentieri!

Ho sentito ricordare anche Emilio Lussu, che è stato uno straordinario combattente antifascista, uno straordinario democratico. Non potete immaginare il fascino che aveva come oratore. Era un oratore forte, roccioso, quando partecipava al Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno, in cui io, molto giovane, ero impegnato. Rappresentava anche l'epopea della partecipazione alla Prima guerra mondiale, e poi alla Resistenza al fascismo, da parte dei sardi.

Infine, ho sentito evocare, tra le persone più vicine alla mia generazione, Renzo Laconi, che fu uno dei maggiori costituenti, e Umberto Cardia, anch'egli parlamentare molto colto e brillante.

E ringrazio il professor Accardo per aver citato il nome del professor Girolamo Sotgiu, che è stato un mio stretto amico per molti anni, da parlamentare e da studioso.

Vengo al Centocinquantenario, per dare ancora una volta una sintesi, a conclusione di tante manifestazioni che si sono svolte, anche riprendendo gli spunti di molti miei pubblici interventi (e fra meno di un mese faremo a Roma una ricapitolazione di queste celebrazioni). Credo fosse necessario e giusto - e si è rivelato importante e fruttuoso - dare il via ad una forte riaffermazione del valore storico del moto unitario e del suo sbocco istituzionale, per trarne - come ho detto e ripeto con molta convinzione - motivi di orgoglio e di fiducia, perché il sentimento dell'Italia, dell'unità nazionale, della coesione sociale e istituzionale su basi democratiche, rappresenta oggi una grande, fondamentale risorsa per affrontare le dure prove che abbiamo davanti.

È stato veramente straordinario il modo in cui tanta parte del Paese ha partecipato a quelle celebrazioni, con migliaia di iniziative partite dal basso, dai Comuni, dai piccoli centri: iniziative che hanno veramente contribuito a rafforzare la coscienza dell'importanza, per la storia d'Italia e d'Europa, del traguardo raggiunto nel 1861.

Nello stesso tempo, credo sia stato giusto non presentare una visione acritica del processo di unificazione. Abbiamo reagito, anche se si è trattato per la verità di fenomeni abbastanza marginali, a rappresentazioni mistificatorie del Risorgimento e ad antistoriche nostalgie, se non a invocazioni dei bei regimi antichi travolti dal moto unitario. Ma, nello stesso tempo, non abbiamo occultato, e invece esplicitamente indicato, e cercato di comprendere per poterli superare, i limiti e i vizi dell'unificazione, cioè della costruzione di uno Stato nazionale unitario in termini di imposizione dell'uniformità a tutto il Paese : in sostanza, di un modello centralistico, che prendeva le mosse dal Regno del Piemonte.

Non so se gli storici possano convenire nel dire che la "fusione perfetta", che qui è stata evocata, fu per la Sardegna quasi un'anticipazione di quello che poi accadde a tutto il Mezzogiorno, nel momento dell'unificazione nazionale. Quel modello di Stato centralistico, quella tendenza o quella imposizione di uniformità rappresentarono l'autentico vizio d'origine dello Stato italiano, nel quale poi abbiamo continuato ad operare di generazione in generazione, affrontando soltanto molto più tardi, come dirò, il problema del superamento di quella tara originaria.

Nel Mezzogiorno, e da parte degli esponenti più lungimiranti di quello che poi è stato definito come pensiero e movimento meridionalistico, ci fu nei confronti della costruzione dello Stato unitario nei primi decenni dopo l'unificazione, un atteggiamento che riassumerei - come ho già fatto un'altra volta - nella formula di «unitarismo critico». Uomini - per fare solo un nome dei grandi esponenti del pensiero meridionalistico - come Giustino Fortunato furono portatori di un attaccamento profondo alla causa dell'unità della nazione italiana, della fondazione di uno Stato nazionale unitario italiano, ma reagendo innanzitutto loro, a quell'epoca, alle nostalgie e alle rappresentazioni mistificatorie del Mezzogiorno pre-unitario, seppero nello stesso tempo mantenere un atteggiamento critico nei confronti del modo in cui si veniva costituendo lo Stato nazionale.

È occorso molto tempo per mettere a fuoco questa ed altre questioni. In ogni caso vorrei sottolineare - lo faccio con particolare convinzione qui in Sardegna per quello che ha rappresentato e rappresenta l'autonomismo sardo, che è poi un capitolo a sé stante nella storia del meridionalismo - che abbiamo cercato, nel corso delle celebrazioni, di coniugare la parola unità, che è rimasta naturalmente la parola chiave, insieme con quella, secondo la dizione della nostra Carta costituzionale, di indivisibilità, con altre parole, come diversità, autonomia, pluralismo, sussidiarietà. Soltanto coniugando insieme questi concetti, questi filoni ispiratori della nostra unità nazionale, possiamo realmente consolidarla e rinnovarla.
Se sono qui, è anche per dire che l'unità nazionale nella sua pienezza non si è fatta una volta per tutte: rimaniamo ancora molto lontani da un suo effettivo compimento, come dicevo questa mattina in Comune. La maggiore incompiutezza del processo unitario è stata e resta il divario tra Nord e Sud: questo rimane il punto debole della nostra effettiva unità nazionale, e se vogliamo rafforzare la nostra compagine come comunità nazionale, dobbiamo più che mai affrontare questo nodo storico irrisolto.

Per quello che riguarda il rapporto tra Stato unitario nazionale e diversità regionali, solo dopo la caduta del fascismo vi fu una prima apertura alle autonomie regionali, costituita dal riconoscimento delle Regioni a statuto speciale, tra le quali in modo particolare la Sardegna. Fu veramente una svolta storica. Si crearono le condizioni per uno sviluppo nuovo dello Stato italiano, che prevedesse autonomie regionali, non solo decentramento. Nella Costituzione, quando vi si arrivò qualche anno dopo, fu sancito questo principio, tant'è che nello stesso articolo della Costituzione in cui si tratta di unità e di indivisibilità della Repubblica, si tratta anche di promozione e riconoscimento delle autonomie regionali.

Penso che questo sia un filone da portare ancora avanti, perché è vero che nel 1970 - badate, occorsero 22 anni, dal momento dell'entrata in vigore della Costituzione, perché si desse attuazione a quell'importante principio costituzionale - si diede finalmente vita anche alle Regioni a statuto ordinario, ma non possiamo nasconderci che in realtà non si pervenne ad un compiuto ripensamento dell'architettura istituzionale del nostro Stato. Nel 2001 vi fu la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, e si crearono le premesse anche per poter aprire la strada del federalismo fiscale, che ha trovato in effetti sbocco in una legge dello Stato ancora in via di realizzazione. Ma per essere sintetici ed essenziali bisogna dire che resta ancora molto da fare per ridisegnare l'architettura istituzionale del nostro Stato.

Ritengo che si debba fare un tratto di strada ora, in questa fase politico-istituzionale, ad un anno o poco più di distanza dal compimento della legislatura parlamentare nella primavera del 2013. Si deve fare un tratto di strada significativo già in questo periodo. Tocca farlo alle forze politiche, ai partiti in Parlamento, alle istituzioni regionali e locali. Al di là della caratterizzazione fuori dei binari ordinari, come è stato indispensabile, del governo attuale, chiamato soprattutto ad affrontare una grave emergenza finanziaria nel quadro della crisi dell'Eurozona, anche in questo anno di tempo bisogna davvero cercare di costruire qualcosa, che non è stato possibile realizzare prima, sul piano delle riforme istituzionali. Abbiamo vissuto anni nei quali la democrazia dell'alternanza, che a partire dagli anni Novanta ha rappresentato una conquista importante e una novità essenziale, è stata vissuta in termini di conflittualità distruttiva, di incomunicabilità. Ne è risultato paralizzato ogni possibile sviluppo anche delle riforme istituzionali e costituzionali.

E abbiamo bisogno, in questa fase, di far funzionare questo cantiere in Parlamento. Abbiamo bisogno, naturalmente, non soltanto di fronteggiare l'emergenza finanziaria, che è caratterizzata dal peso abnorme del debito pubblico accumulatosi nei decenni passati in Italia, ma di avviare nuove politiche di sviluppo, in modo particolare per il Mezzogiorno. Non possiamo pensare che si debba attendere non si sa quanto la conclusione di una fase di risanamento della finanza pubblica, per poi passare ad una fase di rilancio dello sviluppo. Passare ad una fase di impegno per la crescita economica e sociale e per l'occupazione, soprattutto nel Mezzogiorno, è compito che non può essere rinviato ad un futuro più o meno vicino.

Se vogliamo davvero creare le basi per un rilancio dello sviluppo, non basta soltanto - cosa importante a cui mirano alcuni dei provvedimenti dell'attuale Governo - rimuovere ostacoli e barriere: occorre pensare veramente ad una nuova politica di investimenti, di sviluppo industriale, di ricerca e di formazione.

Questi sono gli assi su cui puntare anche per il Mezzogiorno e per la Sardegna. Il ruolo delle università, come ha sottolineato il professor Melis, è chiaramente essenziale per quello che riguarda innanzitutto una politica di ricerca e di formazione. Comunque, se ci sono in gestazione provvedimenti che possono essere considerati negativi non solo per le università sarde o per quelle del Mezzogiorno, credo che siamo ancora in tempo per poterne discutere e far presenti le vostre (ma non solo vostre) preoccupazioni.

Sono sempre stato persuaso che essendo indispensabile - è inutile che ci nascondiamo la dura verità - risanare il bilancio pubblico e ridurre la spesa pubblica corrente, non si dovesse e non si debba procedere per tagli uniformi, alla cieca, ma individuando quello che va tagliato, anzi quello che va perfino eliminato come voce di bilancio, e quello che invece non va tagliato, ma va perfino rafforzato, com'è la spesa per la formazione, per la ricerca e, infine, per la cultura, se mi si consente di aggiungere questa piccola parola che per l'Italia non dovrebbe essere tanto piccola!

Naturalmente, pensare una nuova politica industriale o un nuovo modello di sviluppo - ne parleremo ancora oggi - per la Sardegna e per il Mezzogiorno, pensare una nuova politica di investimenti pubblici, non è facile, perché bisogna pensarla nell'Europa e nel mondo di oggi. Siamo dinanzi ad una stretta che non è soltanto restrittiva, ma anche innovativa. Siamo di fronte a cambiamenti tecnologici e nelle ragioni di scambio, a cambiamenti nei grandi equilibri economici e politici del mondo, da cui, ci piaccia o non ci piaccia, non possiamo prescindere. Quindi, non si tratta soltanto di difendere o rivitalizzare quello che è stato, ma di essere capaci di rinnovare il nostro patrimonio, la nostra esperienza anche sul terreno industriale e produttivo. Da questo punto di vista - lo dico in modo particolare a voi giovani, anche a quelli di voi che sono lontanissimi da simili tentazioni - non bastano e non servono gli slogan ideologici; contano moltissimo e occorrono lucidità, realismo, competenza, applicazione ai problemi, senso della misura. Occorre questo tipo di sforzo, e una grande capacità di contribuire con slancio innovativo, con idee e con iniziative anche dal basso, a quest'opera, a questo sforzo comune di riproposizione di uno sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente nel mondo d'oggi, per la Sardegna e per il Mezzogiorno.

Questo è lo sforzo che dobbiamo compiere tutti insieme. Per quello che mi riguarda, sento la responsabilità, visto che non rappresento le banche e il grande capitale finanziario come qualcuno umoristicamente crede o grida, di essere accanto a chiunque darà il suo apporto al necessario sforzo collettivo di rilancio della nazione italiana e di costruzione di una nuova Europa.